venerdì 25 dicembre 2009

natale con gli ultracorpi

Ben due post nel giro di poche ore. Il nostro regalo di Natale è una piccola selezione personale di film adatti al periodo. Ah, ovviamente anche tra noi ultracorpi c'è chi ha passato la vigilia a guardare Trading Places.



(Giulia Carluccio: The Apartment, Billy Wilder, 1960)


(Riccardo Fassone: 'R Xmas, Abel Ferrara, 2001)


(Andrea Mattacheo: The Night of the Hunter, Charles Laughton, 1955)


(Hamilton Santià: A Charlie Brown Christmas, Bill Meléndez, 1965)

giovedì 24 dicembre 2009

visioni: A SERIOUS MAN (J. & E. Coen, 2009)


“E allora perché sei così colpevole, se non l’hai rubato?”
“Ma io non sono colpevole!”
“E allora perché saremmo qui ad interrogarti se non sei colpevole?”

J. Heller, Comma 22, 1955

Sta forse nel non essere
l’immensità di Dio?

G. Caproni, Pensiero Pio, 1975


Qualcuno “lassù” doveva avere dei problemi con Larry Gopnik: senza che avesse fatto niente di male, una mattina il suo piccolo mondo gli crollò addosso[1]. A Serious Man inizia dopo un prologo oscuro ed inquietante, ambientato nella Lublino di metà ottocento che, come ogni grande transizione dal mondo reale a quello della diegesi, dice già tutto. Poi una lunga spirale – isotopia del non senso “coeniana” – trasporta lo spettatore nel 1967 sulle note dei Jefferson Airplane: «When the truth is found to be lies | and all the joys within you dies», Larry Gopnik spiega di fronte ad una classe, piena eppure vuota, il paradosso di Schrodinger. Un gatto dentro una scatola con una “macchina infernale”. Chi può dire a priori, dopo un tempo determinato, se il gatto sarà vivo o morto? Nessuno, ovviamente: solo l’osservazione risolverà l’enigma. È la storia della vita di Larry. Sotto processo senza sapere perché, libero con la condizionale, una sentenza decretata da un tribunale invisibile. Alla ricerca di un ordine che non sembra proprio esserci. Incredulo di fronte al tradimento della moglie, alle stranezze del fratello, a quelle del figlio giovane “cannabinomane” e della figlia, il cui unico scopo nella vita pare essere quello di lavarsi i capelli.

Un uomo che vorrebbe tanto essere serio e sereno, e invece si ritrova in preda ad una crisi di identità, imposta da un mondo senza centro. Costantemente scambiato per qualcun altro, da poliziotti o venditori telefonici di dischi non ancora incisi e tormentato da incubi in cui abitano vicine di casa provocanti o nazisti membri dell’NRA. A Larry non rimane che cercare un senso nelle risposte della fede. Dai rabbini, però, non troverà che altre incertezze. Il loro Dio si maschera dietro il “non essere”. Uno di loro, un giovane altrettanto perso di fronte all’esistenza, lo invita con voce strozzata a guardare il parcheggio di fronte alla sinagoga, per comprendere così il disegno di Hashem. Un parcheggio semivuoto. E nulla più. Le scale, nell’universo messo in scena dai fratelli Coen, non portano al cielo, ma a tetti con antenne da aggiustare per ricevere meglio Canale 4.

«Accetti il mistero» si sente dire Larry da un surreale avvocato sudcoreano. Lui però, matematico in cerca di finitezza, il mistero non riesce proprio ad accettarlo. Rimane così altrettanto smarrito quando tutto sembra mettersi per il verso giusto. Grazie ad incidenti e coincidenze potrà ritornare alla sua vita normale. Tranquillamente inquieto di fronte alla sua classe assente, spiegando loro il principio di indeterminazione heisenberghiano: non è possibile conoscere simultaneamente la quantità di moto e la posizione di una particella con certezza. Larry non è che un ammasso di particelle, ora sa nuovamente dov’è. Ma dove andrà? Basta una telefonata per cancellare una conclusione apparentemente lieta. I risultati degli esami sono arrivati, bisogna parlarne subito e di persona, dice il medico. E allora non ci resta che osservare inquieti un tornado stagliarsi sul fondo del cielo plumbeo. L’ultima tetra spirale che chiude il film. Sicuri della sola cosa davvero certa: La Fine. Della vita, di tutto, senza nessun senso, senza intelligenze ordinatrici. «Come un cane». E forse la vergogna ci sopravviverà[2].

Andrea Mattacheo

[1] Perdonate la parafrasi di Kafka, ma non ho saputo resistere. Spero che Kafka, ovunque sia il suo spirito, faccia lo stesso.
[2] Di nuovo scusa a chi legge… e ovviamente a Kafka.


sabato 12 dicembre 2009

l'ultimo spettacolo: JAWS (S. Spielberg, 1975)


Una soggettiva anomala, fuori dall'ordinario, un'enorme massa d'acqua avvolge il punto di visione e un tema musicale fortemente evocativo fa da cornice alla scena. Da un gruppo di teenager spensierati si allontana una giovane coppia, la ragazza passa dalla terraferma a uno spazio ignoto, ritorna il tema musicale precedente che porta con sé il mostruoso. La ragazza viene sbranata.


Questa la prima sequenza de
Jaws di Steven Spielberg del 1975.

A più di trent'anni dall'uscita nelle sale di quello che ancora oggi è uno dei maggiori successi della storia del cinema, il film continua a prestarsi a numerose letture. Da quella “sociale” per cui i tre protagonisti sono simbolo di una precisa Classe a quella
  politica secondo cui lo squalo rappresenta il consumismo; a quella psicoanalitica per la quale i tre personaggi incarnano l'Es, l'Ego e il Super Ego, che nel corso dell'avventura in mare sviluppano il loro conflitti.

Se tutte queste letture sono, ciascuna a suo modo, valide e si fanno portatrici di istanze spesso interessanti, lo squalo del film – per usare le parole di Spielberg – è prima di tutto uno squalo. Uno squalo al cinema.


Questo per dire che prima di qualsiasi altra interpretazione,
Jaws è un film così potente, così efficace nel mettere d'accordo pubblico e critica da diventare un'icona cinematografica della contemporaneità: è un film sul cinema e sulla forza narrativa insita nel mezzo cinematografico. In questo senso la prima sequenza è una sorta di dichiarazione di intenti, il luogo nel quale si individuano in modo perentorio le traiettorie linguistiche sulle quali Spielberg decide di costruire il suo terzo film. In particolare il racconto si basa sull'incontro tra l'umano, il quotidiano e lo sconosciuto. Questo rapporto genera una tensione che sta alla base di tutto il film e che lo percorre interamente sia sul piano narrativo, sia – e forse soprattutto – su quello linguistico. Il regista infatti costruisce la struttura filmica su una serie di opposizioni quali quella tra terra e acqua, tra luce e buio, tra dentro e fuori, che testimoniano tutte l'opposizione esistente tra l'uomo e quella che per buona parte dell'opera (secondo la felice scelta di non mostrare lo squalo per i primi due terzi del film) è un'ignota, mostruosa alterità.

È l'opposizione tra dentro e fuori il perno dell'intero film e che ne esemplifica al meglio le proprietà metatestuali: tutto ciò che esiste dentro l'inquadratura è quasi sempre materiale ordinario, teso in modo sempre più spasmodico a straripare verso il fuori campo alla conquista del
fuori. Allo stesso modo, è fortissima la tensione del fuori a sfondare il dentro. Lo spettatore è travolto, quasi torturato da questa tensione che genera in ogni sequenza del film delle attese crescenti, in linea con i canoni della suspense di hitchcockiana memoria.

Jaws, però, nonostante sia molto distante dalla sua produzione successiva (e degli anni Ottanta in particolare) è, in ogni caso, un film di Spielberg in cui l'avventura ha un ruolo centrale nel percorso narrativo del protagonista, la cui quotidiana e spesso monotona vita è stravolta dall'incontro con lo straordinario. Un cinema che mostra il "conflitto" tra l'uomo e la sua avventura.


Attilio Palmieri