lunedì 29 marzo 2010

l'ultimo spettacolo: TAXI DRIVER (M. Scorsese, 1976)

I believe that one should become a person like other people

[…] Isolato in un mondo di immagini, tra la tv e il cinema porno, tra la città che scorre come un film attraverso vetri e specchietti del suo taxi, solo di fronte allo specchio, Travis è un personaggio unico anche nel cinema di quegli anni. È un reduce del Vietnam, d’accordo, ma anche un visionario e un solitario che cerca di verbalizzare la propria angoscia – al contrario dell’afasico Rambo (il film di Ted Koetcheff è di sei anni dopo), che solo alla fine dà la stura alle parole. È un intellettuale senza cultura e che sogna l’azione (“È me stesso senza cervello” ha detto Schrader), un angelo custode e un angelo vendicatore, un assassino e una vittima: una “contraddizione ambulante”, come recitano i versi di Kris Kristofferson che gli dedica Betsy. Tutto e il contrario di tutto: uno Zelig ante-litteram, uno specchio distorto di ciò che lo circonda. Come notò Giorgio Rinaldi, “la sceneggiatura sottolinea la disponibilità del protagonista a essere uno, nessuno o tutti… seduttore impacciato, idiota di paese, pellerossa sul piede di guerra, sacerdote assorto di rito”. E tutti parallelamente lo scambiano per qualcosa che non è: Iris e Sport per un poliziotto, la cassiera del porno per un maniaco, i colleghi per un cowboy.

“Il problema di Travis” commenta Schrader “è lo stesso degli eroi esistenziali: perché esisto? Ma Travis non capisce che questo è il suo problema, così lo focalizza altrove: e io penso che ciò sia un segno dell’immaturità e dell’ ingenuità giovanile del nostro paese. L’impulso autodistruttivo, invece di essere rivolto all’interno, come in Giappone o in Europa, è diretto all’esterno. L’uomo che sente giunta l’ora di morire esce fuori e ammazza gli altri invece di uccidere se stesso” Sono parole che colgono nel segno: c’è un che di velleitario e di patetico nella scelta di passare all’azione del suo personaggio. Travis è erede di una tradizione ben radicata negli Usa, quella degli uomini che, dopo una vita apparentemente normale, impazziscono, prendono il fucile e fanno una strage, perché semplicemente è più forte di loro. Uno di essi, Charles Whitman, che aveva ammazzato 12 persone e ne aveva ferite 35 dall’alto di una torre di Austin, Texas, il 1° agosto 1996, con un arsenale paragonabile a quello di Travis Bickle, aveva ispirato il film Bersagli (Targets, 1967) di Peter Bogdanovich. Ma la questione non si esaurisce, come vorrebbe Schrader, nel discorso sociologico sull’incapacità americana di interiorizzare e di rivolgere contro di sé le proprie pulsioni di morte. La violenza ha echi profondi e inquietanti, e Scorsese l’ha rappresentata in modo adeguato. […]

Alberto Pezzotta, Martin Scorsese. Taxi Driver, Lindau, Torino, 1997, pp. 51-2

[…] Le intenzioni di Travis sono buone; lui crede di fare del bene, proprio come san Paolo. Vuole purificare la vita, la mente, l’anima. E’ un mistico, ma nello stesso senso in cui lo era Charles Manson, il che non significa che fosse una virtù. È come se il potere dello spirito stesse percorrendo la strada sbagliata. L’idea di base del film è quella di essere coraggiosi al punto da ammettere queste sensazioni ed esprimerle. Io ho mostrato istintivamente che il fatto di esprimerle non era il modo migliore di agire, e questo ha messo in evidenza gli aspetti ironici di ciò che accadeva.

L’esperienza cruciale per il personaggio Travis Bickle è stata l’aver sperimentato la vita e la morte attorno a sé in ogni secondo in cui si trovava nel sud-est asiatico. Per questo, una volta tornato a casa, egli è più teso; l’immagine delle strade notturne riflesse nell’acqua sporca dei tombini diventa una minaccia. Penso che sia una sensazione probabile in un ragazzo che ha vissuto una qualsiasi guerra: al momento del ritorno nella cosiddetta civiltà, la sua paranoia sarebbe maggiore. Non dimenticherò mai ciò che mio padre mi raccontò a proposito di un mio zio che ra tornato dalla seconda guerra mondiale: mentre stava camminando per la strada, un giorno, una macchina ebbe un ritorno di fiamma e lui cominciò a correre per due isolati! Il Vietnam ha lasciato il segno in Travis Bickle: lui trattiene tutto dentro di sé fino a quando esplode. E, sebbene alla fine del film sembri aver ripreso controllo di sé, noi abbiamo l’impressione che la bomba a orologeria potrebbe scoppiare in qualsiasi momento. […]

D. Thompson e I. Christie (a cura di), Scorsese secondo Scorsese, Ubulibri, Milano, 1991, pp. 89-90

TAXI DRIVER
(id., Martin Scorsese, 1976)
mercoledì 31 marzo 2010, Cinema Massimo - Sala 3, ore 20.030
presentazione a cura di Gianni Rondolino e Alberto Pezzotta

domenica 21 marzo 2010

l'ultimo spettacolo: RAIDERS OF THE LOST ARK (S. Spielberg, 1981)


Quando nel 1981 uscì I predatori dell'arca perduta, a fronte del grande successo di pubblico non figurò una pari fortuna critica: eccessive parvero le soluzioni di messa in scena ad una critica abituata ad un cinema, quello degli anni Settanta, lontano anni luce dal lavoro del regista de Lo squalo. Il percorso di avvicinamento all'opera non è stato dei più semplici: dopo il grande successo di Incontri ravvicinati del terzo tipo Spielberg affronta il suo primo insuccesso commerciale con 1941 – Allarme a Hollywood. Anche in questo caso si tratta di un film di difficile lettura: alla disfatta economica si accompagna una complessità critica di indubbio valore, fatta di innovazione stilistica, aperture al postmoderno e grande portato metalinguistico.
Alla luce dell'esito del film del 1979 il regista fa le cose diversamente, interpreta i mutamenti del sistema produttivo hollywoodiano e vi si insinua, capisce che per avere potere contrattuale bisogna auto-prodursi e, soprattutto, mutare le strategie comunicative con lo spettatore. Insieme all'amico George Lucas, fresco dei successi di Guerre stellari e L'impero colpisce ancora, crea, sulla scia d'oro della celeberrima e rivoluzionaria saga lucasiana, un altro high concept movie, colosso produttivo la cui carta vincente risiede intrinsecamente nella propria ontologia: oggetto cinematografico in grado di trasmigrare attraverso tutti i canali della comunicazione, prodotto culturale che trascende il cinema, che copre e interpreta le forme di comunicazione popolari americane. I predatori dell'arca perduta ha infatti legami inscindibili con la tradizione classica, con un particolare tipo di eroe maschile; incorpora una lunga tradizione di film d'avventura degli anni Trenta e Quaranta; metabolizza le istanze comunicative del serial avventuroso americano (molto amato da George Lucas); assume al suo interno trame e sotto-trame che vedono nella letteratura giovanile la propria matrice e riabilita l'iconografia fumettistica come forma d'arte. Anche quest'opera, come tante altre dell'autore, è però prima di tutto un'esibizione di cinema, spettacolo affascinante e abbacinante delle potenzialità della settima arte, bomba ad orologeria audiovisiva che ama prima di ogni cosa rendersi manifesta, dimostrare la propria potenza, detonarsi senza indugi extra-cinematografici.
La prima sequenza è in questo senso una dichiarazione d'intenti: quasi un cortometraggio in cui vengono poste in nuce tutte le peculiarità che il film dimostra di possedere nel suo svolgimento, accennate le tematiche che la narrazione affronterà e, soprattutto, esplicate in maniera emblematica le soluzioni registiche che caratterizzano tutto il film: l'uso intensivo della suspense di hitchockiana memoria, il ricorso al montaggio alternato per caricare di pathos ed attese le mirabolanti scene d'azione che pongono in evidenza tematiche fondamentali del film e del regista quali l'inseguimento e la caccia - non c'è tanto di differente, in fondo, tra l'autocisterna (Duel), le pattuglie di polizia (Sugarland Express), lo squalo (Lo squalo) e la palla nera (I predatori dell'arca perduta) e minacciosa che insegue Indiana Jones nella prima sequenza.
Attilio Palmieri

I PREDATORI DELL'ARCA PERDUTA
(Raiders of the Lost Ark, Steven Spielberg, 1981)
mercoledì 24 marzo 2010, Auditorium G. Quazza, ore 15.00
presentazione a cura di Attilio Palmieri

lunedì 8 marzo 2010

l'ultimo spettacolo: THERE WILL BE BLOOD (P.T. Anderson, 2007)


There Will Be Blood: scorrerà il sangue.

Paul Thomas Anderson titola la sua ultima pellicola con una profezia. Questa frase apre e chiude il film, bianco su nero. Indica ciò che accadrà e sottolinea ciò che è appena accaduto. Tutto il film è una profezia. Daniel Plainview (Daniel Day Lewis) è un cercatore d’argento che diventa cercatore di petrolio. Durante il trivellamento di un terreno in California incontra Eli Sunday (Paul Dano), giovane predicatore evangelico. Questi due personaggi sono l’anima di ogni ambito di riflessione affrontato dal film. La sceneggiatura, firmata come sempre dallo stesso Anderson, è un adattamento di Petrolio! (Oil!, 1927), romanzo di Upton Sinclair. Il lavoro di scrittura è però affrontato da Anderson in una direzione di semplificazione e scarnificazione, andando a eliminare gli intrecci politici ed economici presenti tra le pagine del libro e riducendo al minimo l’attenzione verso H.W., il figlio di Plainview.

La base su cui il film è stato scritto si collega alla storia americana: sia letteraria (oltre a Petrolio!, anche Moby Dick) che cinematografica, un chiaro esempio è John Huston. È interessante notare come proprio John Huston abbia trasposto per il grande schermo il celebre romanzo di Herman Melville, Moby Dick, il cui protagonista ha più di un collegamento con quello de Il petroliere. Come per il capitano Achab, quella di Plainview è una sfida costante alla natura: è più importante il successo della loro personale impresa che il semplice guadagno. In entrambi, la smania di raggiungere il proprio sogno porterà al delirio di onnipotenza.

I riferimenti cinematografici maggiori si collegano al cinema muto. In questo senso, sono illuminanti gli anni che Anderson sceglie per contestualizzare il racconto, tra il 1911 e il 1927. Seguendo una strada prettamente storica, si può notare come il 1911 possa essere considerato l’anno di affermazione del lungometraggio, mentre il 1927 è l’anno che determina l’inizio del cinema sonoro e la fine del muto. Si potrebbero così spiegare i tantissimi riferimenti (sia citazioni che semplici suggestioni) che rimandano al cinema muto.

Come in quasi tutta la filmografia del regista, anche ne Il petroliere c’è un mescolamento di generi diversi: come lo stesso Anderson ha dichiarato questa sua ultima opera è un horror travestito da western. Palese collegamento con uno dei registi simbolo del muto: Eric Von Stroheim, il cui Rapacità (Greed, 1923) sembra riecheggiare più volte all’interno della pellicola.
Un altro riferimento è a Murnau, omaggiato da P.T. Anderson con un’esplicita citazione da Nosferatu (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, 1922): Daniel Plainview, novello conte Orlok, si incurva e si storce sulla scala, prima di succhiare (metaforicamente) il sangue della sua inerme vittima nella parte finale del film.

Ma Il petroliere, oltre che alla storia del cinema, contiene riferimenti alla storia dell’uomo, componendosi come un’enorme ed imponente allegoria politica, sociale e, per certi versi, religiosa della realtà statunitense. In particolare di tutti gli elementi che ne hanno decretato lo sviluppo e di quelli che potrebbero decretarne la fine. Il petrolio, e il denaro, come nuove divinità; battesimi nell’oro nero e nella menzogna; derrick d’estrazione come nuove torri di Babele; la guerra eterna tra Caino ed Abele. E persino nell’Apocalisse di Giovanni si possono trovare altre personificazioni dei protagonisti del film: la bestia del mare (Ely) in grado di soggiogare i fedeli, e la bestia della terra (Daniel) in grado di marchiare ogni compravendita.
Anderson racconta la nascita della nuova Babilonia, e Babilonia, come è scritto, verrà rasa al suolo.

Andrea Chimento e Paolo Parachini

IL PETROLIERE
(There Will Be Blood, Paul Thomas Anderson, 2007)
lunedì 15 marzo 2010, Cinema Massimo 3, ore 16.30
presentazione a cura di Andrea Chimento e Paolo Parachini