sabato 24 aprile 2010

l'ultimo spettacolo: VIDEODROME (D. Cronenberg, 1983)



[...] La grandezza di Videodrome sta non soltanto nella lucidità con cui visualizza i processi di contaminazione fra l’organico e l’elettronico, mostrando una televisione che diventa carne e un corpo di carne che funziona come un magnetoscopio televisivo. Se così fosse, se il film di Cronenberg fosse soltanto questo, probabilmente Videodrome non avrebbe quella carica di sconvolgente inquietudine e non produrrebbe quella sensazione di stordente disagio che invece riesce a trasmettere ogni volta, a ogni nuova visione, allo spettatore. C’è qualcosa d’altro, qualcosa di più: il fatto che Cronenberg applica anche al linguaggio (al cinema) quei processi di contaminazione e confusione che mostra all’opera sul piano dei corpi. E fa di Videodrome, in tal modo, quasi il paradigma di uno stile che si fonda sempre, dall’inizio alla fine, sull’instabilità enunciativa.

Videodrome è, per ammissione dello stesso Cornenberg, un film «in prima persona»: cioè un film che rompe con l’abitudine dello spettatore di considerare la macchina da presa come un «narratore onnisciente». In Cronenberg non è così. Di fronte a Videodrome non è possibile attribuire alle immagini un aprioristico statuto ontologico di verità. Perché la narrazione, basata sull’incessante cambiamento dei punti di vista, non consente mai a nessuno di stabilire con certezza se ciò che si vede è un’allucinazione, un sogno o una “realtà”. Cronenberg, insomma, rimette radicalmente in discussione la nozione di “realtà” così come si manifesta sullo schermo del cinema. [...]

Gianni Canova, David Cronenberg, Il castoro, Milano, 2007

VIDEODROME (id., David Cronenberg, 1983)
martedì 27 aprile 2010, Lab. Quazza - seminterrato P. Nuovo, ore 15.00
presentazione a cura di Riccardo Fassone

lunedì 19 aprile 2010

l'ultimo spettacolo: THE WRESTLER (D. Aronofsky, 2008)


« le catch a la vertu d'être un spectacle excessif »
Roland Barthes, Mythologies

[...] Il mio ultimo esame neurologico era terribile: il medico mi disse di ritirarmi. Ero incredulo. « Smetti subito, Mickey », aggiunse. « Ancora un combattimento! Uno solo! », lo implorai (in realtà me ne mancavano ancora tre per lottare per il titolo). Lui mi domandò: « Quant'è la posta il palio? ». « Due milioni di dollari », risposi. « Lascia che ti dica una cosa: dopo l'incontro sarai conciato così male, il tuo cervello farà così schifo che non potrai nemmeno contare tutti quei soldi ». In effetti ho perso comunque la memoria a breve termine. Posso ricordare fatti di vent'anni fa e non riuscire a dirti cosa ho mangiato a colazione. [...]

Intervista a Mickey Rourke in Luca Barnabé, Sotto il segno dell'Ariete, «duellanti», 49, febbraio 2009

[...] Un Christ en croix tatoué dans le dos, Randy trimballe avec souffrance un corps labouré par les coups et marqué par des stigmates (la scène où son adversaire lui plante des agrafes à même le torse est particulièrement révélatrice, sans doute un rien sursignifiante). Porteur d'une rédemprtion à fleur de peau, Randy cherche par tous les moyens à se racheter auprès de ses admirateurs, comme auprès de sa fille: il n'aura d'autre choix que de se sacrifier dans la séquence ultime. [...]

Franck Garbarz, La traversée des apparences, «Positif», 576, février 2009

THE WRESTLER
(id., Darren Aronofsky, 2008)
mercoledì 21 aprile 2010, Cinema Massimo - sala 3, ore 16.30
presentazione a cura di Andrea Mattacheo e Hamilton Santià

domenica 11 aprile 2010

l'ultimo spettacolo: APOCALYPSE NOW (F.F. Coppola, 1979)


Un bambino di circa dieci anni si avvicinò a un gruppo di marine della compagnia Charlie. Rideva e muoveva la testa da una parte all’altra in uno strano modo. La fierezza del suo sguardo avrebbe dovuto far capire a chiunque di cosa si trattava, ma la maggior parte dei soldati non è mai stata sfiorata dall’idea che anche un bambino vietnamita poteva essere fatto impazzire, e quando lo capirono, ormai il bambino aveva incominciato ad attaccarli graffiandoli negli occhi e a strappargli le tute, mettendo tutti in imbarazzo, limando i nervi a tutti, finché un soldato nero lo afferrò da dietro e lo tenne stretto per il braccio. «Dai, vieni, povero piccino, prima che uno di questi figli di buona donna ti spari».

Michael Herr, Dispacci, 2009, Rizzoli, Milano, p.98

[…] Ma se Apocalypse Now non parla della guerra del Vietnam, nella misura in cui non ci dice nulla sulle origini di quel conflitto e sulle ragioni delle due parti in lotta, e tende verso un rappresentazione stilizzata e surreale, c’è da chiedersi se effettivamente il film abbia in qualche modo a che fare con la dimensione della Storia. Apocalypse Now è ispirato a Heart of Darkness, un libro tutto incentrato sul problema dello scontro tra Kultur europea e società primitive e sulla segreta attrazione che la wilderness esercita sull’uomo bianco. Questo problema di fondo del testo con radiano è collocato – con le dovute mediazioni – anche al centro del film di Coppola. Il regista parte, sì, dal Vietnam, ma per fare un discorso più ampio sull’America (cuore politico-militare e culturale della civiltà occidentale, corrispettivo moderno dell’impero britannico dell’età di Conrad) e sul rapporto con l’altro, vietnamita o pellerossa che sia. Il personaggio di Robert Duvall è una sorta di icona, di simbolo vivente del nesso tra Vietnam e guerre indiane, tra passato e presente dell’espansionismo americano. Il tenente colonnello Kilgore, con tanto di cappello da cavalleggero, è un diretto discendente di Custer e di Theodore Roosvelt che ha sostituito i cavalli con gli elicotteri, e che quando parte all’attacco fa suonare la carica al trombettiere, come i suoi predecessori facevano nelle Grandi Pianure o sulla collina di San Juan. La musica di Wagner assurge quindi a simbolo sonoro dell’Occidente e della sua esperienza storica. La sequenza del bombardamento del villaggio è una visualizzazione della natura ambivalente dell’uomo faustiano, terribile e affascinante al contempo. Ma l’apparato tecnologico americano non è soltanto mostruoso, la sua comparsa nel cuore della wilderness crea anche una sensazione di irrealtà. La scena dello show dell’USO è quella più significativa a proposito. La presenza del palco illuminato e delle bunnies – che non a caso indossano costumi western – nel bel mezzo della giungla del Sud-Est asiatico è surreale, incredibile. […]

Giame Alonge, Tra Saigon e Bayreuth. Apocalypse. Now di Francis Ford Coppola, 1993, Tirrenia Stampatori, Torino, pp. 42-43


APOCALYPSE NOW
(id., Francis Ford Coppola, 1979)
martedì 13 aprile 2010, Auditorium Quazza - seminterrato Palazzo Nuovo, ore 15.00
presentazione a cura di Giaime Alonge

martedì 6 aprile 2010

l'ultimo spettacolo: MYSTIC RIVER (C. Eastwood, 2003)


[...] In Mystic River si parla d'America, di Mito e di Sogno molto più di quanto non appaia dall'intreccio poliziesco che ne costituisce l'ossatura. E se ne parla, soprattutto in prospettiva rispetto ad altri film di Eastwood, in termine sottilmente storicizzati e tremendamente disillusi. C'è una tristezza silenziosa e impotente che attraversa tutto il film, un'ossessiva coazione a ripetere, un'ineluttabilità degli eventi, che trasformano Mystic River in una tragedia già scritta, senza vie di fuga, dove il Destino finisce per chiamarsi Storia.

Raccontare e spiegare la complessa tessitura di cui è composto questo doloroso e claustrofobico affresco americano significa non rendere giustizia all'intelligenza e alla cultura dell'autore, che in una bella intervista a "Positif" ha semplicemente evidenziato i diversi piani di scrittura (e di lettura) del film (compresa l'analogia tra il personaggio di Laura Linney, la moglie di Jimmy, e Lady Macbeth) e ne ha riassunto in tre parole il significato profondo: "É una tragedia americana, una storia di innocenza perduta". [...]

Emanuela Martini, «Cineforum» n. 426, giugno-luglio 2003

[...] La forma classica del poliziesco è solo lo strato più superficiale, fintamente aritmetico, di un film che si chiude nella ristrettezza di spazi angusti, nella penombra della marginalità urbana. Crudele storia di figli violati e di padri accecati dalla vendetta, figli crocifissi dai padri, per essere stati, a loro volta, figli crocifissi, figure che hanno perso da tempo la propria innocenza e che vagano nella vita di tutti i giorni estranei al mondo e a se stessi. Vampiri, appunto, un po' vivi e un po' morti, come il vampiro di Carpenter che si mostra da un televisore, brandendo, non a caso, una croce, come il nome di Dave scritto a metà su quella lapide da cui tutto è iniziato. Il giardino, qui, non conosce la divisione tra bene e male, è il teatro nero dei giochi di morte giocati alla cieca, e la vita è solo una strada da percorrere ad occhi chiusi, per non vedere davvero la realtà. Coras verso la fine (uguale a Un mondo perfetto, ma senza la luce schietta che illuminava "salvando" quel film), a precipizio verso l'oscurità, il gesto irrimediabile, che coincide con l'inizio, con la pallina che cade nel tombino ed è persa per sempre.

Non corpi riemersi per compiere una missione, ma non-vivi brancolanti all'ombra di croci su cui è impresso il senso di colpa di ognuno. L'anello di uno dei due rapitori di Dave, i crocifissi appesi alle pareti degli interni, la croce tatuata sulle spalle di Jimmy. Proprio a lui toccherà portare il peso più grande nell'impossibile implosione di tutto il suo dolore. Alla parata del Columbus Day rientra nei ranghi, ritorna a percorrere quella linea retta che è la forma filmmica di Mystic River, la progressione necessaria, tutta compresa nella sua freddezza funerea di film che, alla fine, si richiuse in se stesso.

Grazia Paganelli, La linea retta, «Filmcritica» n. 540, dicembre 2003

MYSTIC RIVER
(id., Clint Eastwood, 2003)
mercoledì 7 aprile 2010, Cinema Massimo - Sala 3, ore 20.030
presentazione a cura di Giulia Carluccio, Emanuela Martini e Grazia Paganelli