venerdì 31 dicembre 2010

TFF 2010 - Qualche considerazione...

Scorrere il catalogo di un festival alla ricerca di indicazioni sullo stato di una cinematografia nazionale può essere un esercizio ozioso. Le rassegne di questo tipo, anche le più prestigiose, sono frutto di negoziazioni, compromessi, tentativi. Nel caso del Torino Film Festival, storicamente vicino all'avanguardia e alla sperimentazione, tuttavia, si può sperare di confrontarsi con una selezione che disegni percorsi all'interno di un cinema che si possa dire nuovo. Non tanto e non solo nel senso della ricerca linguistica e tecnica, quanto piuttosto nel disallineamento dallo status quo del narrare per immagini, nella programmatica dissonanza.

Nel contesto del cinema indipendente americano contemporaneo – siamo consapevoli della provvisorietà della definizione – abbiamo cercato di isolare due nuclei tematici ricorrenti. Il primo è legato alla rappresentazione della ruralità.
Anche senza risalire a Non aprite quella porta – che rimane però un riferimento imprescindibile per molte opere che citeremo – ci si accorge della pervasività di tale tema nel cinema indipendente statunitense dell'ultimo decennio pensando alle devianze di
Gummo o all'allucinazione twaininana di Undertow. Il film vincitore del festival, Winter's Bone di Debra Granik pare inserirsi in questa recente tradizione. È la fotografia di una zona di marginalità (quella che, con una perifrasi molto in voga qualche anno fa, si definiva “la provincia americana”) che sembra imporre il ritorno a uno stato di natura feroce. Un ritratto simile a quello offerto dal canadese Small Town Murder Songs, che a partire da un omicidio tenta di cogliere le peculiarità della quotidianità segregata in un villaggio mennonita. La provincia dei film citati, però, non è più il luogo della vendetta del non civilizzato di Un tranquillo weekend di paura o de I guerrieri della palude silenziosa. Tanto in Winter's Bone quanto in Small Town Murder Song, il dualismo tra civiltà e barbarie è cancellato dall'assenza di un riferimento alla città. In entrambi i casi, le comunità sono agglomerati di case sparse, mal disposte su un terreno brullo, cui non è offerta la possibilità del confronto – anche violento – con altri. È un ritratto dell'altrove che si fa astratto e, nel caso del film della Granik, anche vagamente calligrafico. Quasi rimandasse a un'idea dell'altro da sé fissata in caratteri (anche estetici; si pensi al prototipo redneck di Winter's Bone) tanto riconoscibili quanto inoffensivi.

Il secondo nodo tematico evidenziato trasversalmente dalle pellicole nordamericane selezionate dal festival è quello relativo al rapporto tra il cinema e la cultura di massa. In film come
Super o Kaboom è all'opera una commistione tra i dispositivi espressivi del cinema e alcune convenzioni rappresentative di altri media popolari. Nel film di James Gunn, ad esempio, il fumetto non è solo una parte esplicita della narrazione (la coprotagonista gestisce una fumetteria), ma rappresenta un orizzonte estetico evocato e ricostruito più volte durante il racconto. Kaboom, invece, nel creare una commistione tra linguaggio cinematografico (o, si direbbe, cinofilo, vista l'abbondanza di citazioni) e grammatica del montaggio di natura televisiva, dà vita a calcolate discrasie narrative.
D'altra parte, in film
Altitude e Suck si assiste a una messa in scena esplicita di alcuni feticci della cultura di massa. In entrambi i casi è attivo un doppio movimento: da un lato vi è un processo di mitizzazione della pop culture, dall'altro una forma di distacco ironico. La presenza di alcune star dell'hard rock nel film di Stefaniuk rappresenta un tentativo di sfruttare questa tensione: alla ridicolizzazione del machismo e dell'estetica cimiteriale dell'heavy metal si affianca la trasfigurazione mitica di alcuni dei suoi esponenti più illustri.

Entrambe le tendenze evidenziate sembrano rileggere ossessioni ricorrenti del cinema americano. Come detto, l'ipotesi del rurale come luogo della sopraffazione e della violenza fu uno dei tratti caratteristici del cinema degli anni Settanta (ma si potrebbe risalire fino a
La morte corre sul fiume). L'approccio ironico alla cultura popolare messo in luce da film come Altitude o Suck, d'altra parte, non sembra molto diverso da quello presente in alcuni film degli anni Ottanta come Ai confini della realtà o Morte a 33 giri. Per molti versi, dunque, la nostra ricognizione – evidentemente parziale e rapsodica – ha evidenziato ricorsi più che avanguardie. Se tale dinamica sia dovuta a una precisa scelta operata dai curatori del festival o, piuttosto, a un effettivo ritorno di certe pulsioni in seno al cinema indipendente americano, rimane una questione aperta.

Riccardo Fassone

domenica 19 dicembre 2010

Speciale Clint Eastwood – Anteprima Hereafter

a cura di Giulia Carluccio e Hamilton Santià

La serata di chiusura del TFF 2010 ha presentato in anteprima
Hereafter, l’ultimo atteso film di Clint Eastwood.

In attesa di riprendere il discorso sul film dopo l’uscita in sala, prevista per i primi di gennaio, Gli Ultracorpi hanno chiesto a critici e studiosi presenti alla proiezione festivaliera di intervenire “a caldo”, con note e brevi recensioni, in modo da costruire un mosaico di sguardi plurale su quello che appare come il più controverso tra gli ultimi film di Eastwood.

In ordine alfabetico, interventi di: Pier Maria Bocchi, Chiara Borroni, Riccardo Fassone, Bruno Fornara, Emanuela Martini, Grazia Paganelli, Franco Prono, Gianni Rondolino, Gianni Volpi.




Ciò che mi piace del cinema di Eastwood, e in particolare del più recente (il tanto bistrattato
Invictus compreso), è il desiderio di unire gli opposti, il tentativo di associare i contrari. Anche al prezzo di una vita. Ciò che non mi piace di Hereafter è l'inclinazione sospetta a recintare gli opposti, la propensione ambigua a esiliare tra loro i contrari. Tanto che a risultare celebrata è la solitudine dei numeri primi, e non la loro possibilità di integrazione. Hereafter conduce all'imprigionamento dell'eccezionalità, piuttosto che alla sua "pratica" nel mondo; all'annichilimento della comprensione delle diversità, piuttosto che alla sua promozione. E sulla necessità dell'abbandono dei propri "morti", per poter finalmente tornare a vivere, trovo che Inception, per esempio, sia molto più convincente e straziante.

Pier Maria Bocchi


Hereafter inizia investendo lo spettatore con la forza distruttrice di uno tsunami. Annichiliti, annientati come si resta quando si perde qualcuno, incapaci di pensare a un oltre terreno e affrontabile con le proprie sole forze. Hereafter non è infatti tanto un film sull’aldilà quanto piuttosto un film sul restare comunque al di qua del limite e sopravvivere, un film sull’accettabilità della morte; solo nella storia dei gemelli londinesi si riesce però a scorgere il vigore, e anche il rigore forse, che ci si aspetta da un Eastwood che si confronta con questo tipo di esperienza umana. L’inizio dell’episodio di cui sono protagonisti gli stupefacenti fratelli McLaren è probabilmente la sequenza più brillante del film: la fotografia per la madre, l’interazione tra i caratteri dei due personaggi, il loro bastarsi e giustificarsi a vicenda. La sceneggiatura non è però per intero all’altezza dell’episodio, che finisce per altro anche questo per sfilacciarsi, e il film si perde (non basta la regia sicura) in un girovagare che non trova il doloroso e concreto mordente del cinema migliore dell’amato vecchio Clint.

Chiara Borroni


Hereafter è un film sul raccontare come atto ordinante, sulla narrazione come tentativo di rendere visibile ciò che non lo è. A Eastwood non interessano le meccaniche del narrare (il gioco del racconto nel racconto), ma piuttosto la ricomposizione del caos che è propria della messa in racconto del mondo.
Come molti film dell'autore californiano, anche
Hereafter contiene un doppio movimento. Da un lato il radicale ripensamento di forme espressive classiche (qui, ad esempio, il campo/controcampo), dall'altro il dispiegamento di un sistema ideologico coerente e complesso, che è forse il dato più evidente dell'eastwoodianità dell'ultimo decennio.
Calato nella contemporaneità fino quasi alla cronaca,
Hereafter è la prova definitiva che ogni etichetta mummificante (“ultimo classico”) attribuita a Eastwood svilisce la vitalità del suo cinema.

Riccardo Fassone


Tra
here e after, qui e dopo, Eastwood sta dichiaratamente per il qui, per l'adesso. L'Ade è un posto triste, in una luce troppo abbagliante: e nella luce piena non si riesce a vedere, come al buio. È in questo nostro mondo che si giocano i destini dei personaggi. È qui che George "vede" il passato dei morti e capisce quanto il loro ricordo pesi sui vivi. Da questo peso si vuole liberare. Così alla fine George guarisce (e non "vede" più): grazie all'aiuto di un bambino e al bacio di una donna. Il gruppo eastwoodiano si è riformato, come in tanti altri film di Clint. E si può cominciare a vivere davvero.

Bruno Fornara


Facce quotidiane. Gente. Persone normali accerchiate dalla solitudine, nella quale sono abituate a vivere o della quale diventano consapevoli all’improvviso, magari a causa di un evento traumatico. Questo racconta
Hereafter, il bellissimo nuovo film di Clint Eatswood nel quale la morte, percepita tutto intorno o incontrata bruscamente, è solo un momento della vita o uno spunto narrativo, quello che ti costringe a ripensare a te stesso, ai tuoi rapporti e al tuo bisogno degli altri. Tutt’altro che un film “senile” (come poteva trapelare da alcune recensioni americane). Anzi, un film che risolve brillantemente un intreccio molto complicato e all’apparenza slegato, e che racconta la fatica quotidiana e la sorprendente bellezza di vivere. Basta inseguire una passione, magari quella per Charles Dickens, basta affidarsi al caso, per scoprire la persona perfetta, quella alla quale si può stringere la mano senza rabbrividire. È il Destino del mélo, quello che anni fa ha fatto incontrare Francesca e Robert Kincaid (I ponti di Madison County) o Butch e Buzz (Un mondo perfetto) o persino il vecchio Walt Kowalski con i suoi giovani vicini Hmong (Gran Torino). È il mondo dei giusti come lo vede Clint Eastwood, con umanità e rispetto. È il nostro mondo, con le ombre impalpabili dei morti e dei perduti che ci circondano e ci ricordano di vivere.

Emanuela Martini




Classico solo nel respiro di un cinema robusto e radicato nell’idea della ricerca e della sfida.
Hereafter è, come la gran parte dei film di Clint Eastwood, l’espressione di un desiderio teorico, la sperimentazione attorno al concetto di ostacolo, di limite, oltre il quale spingere le immagini e le storie. Non una dichiarazione d’intenti, ma una necessità che trasforma il pensiero in gesto, il metodo in un film rarefatto e denso al tempo stesso. Come possono tre storie diverse e lontane trovare il punto di equilibrio, la connessione da cui ripartire? Ecco la scommessa vinta da Eastwood, che traccia tre linee e le assottiglia via via che le storie prendono corpo. George, Marie, Marcus seguono percorsi tortuosi nella loro fuga dalla realtà, e finiscono per trovare la strada proprio in quella stessa fuga. Come l’onda gigantesca dell’inizio, che si ritira prima di travolgere la riva.
George è un sensitivo, può comunicare con le anime dei morti, ma non vuole più avere a che fare con l’aldilà e segue un corso di cucina per distrarre la sua stessa natura. Marcus è un bambino che ha perso il fratello in un incidente e si rivolge a tutti i sensitivi di Londra per poter parlare di nuovo con lui. Marie, invece, è una giornalista televisiva che ha sperimentato la morte proprio in quello tsunami e ora cerca il significato di ciò che ha vissuto. In tutti e tre i casi si è perso il “filo del discorso” e si cerca una soluzione nell’equilibrio, piuttosto che nello spaesamento.
Sforzo inutile, anzi, sbagliato, sembra dirci Eastwood. Perché la soluzione non è fermarsi ma continuare a cercare, muoversi per non annegare. E ce lo dimostra spingendo i suoi personaggi a esasperare le loro stesse vicende, mescolando le carte delle aspettative e mettendoli di fronte all’urgenza del loro incontro. Tre racconti che sono tre film, modulati secondo uno sguardo plasmato dai luoghi (San Francisco, Londra e Parigi), dalle parole e dallo spessore dei silenzi. Il genere serve a indicare lo schema da cui allontanarsi, innesca il cortocircuito del racconto: non si procede per accumulo ma per riduzione, sottrazione dei dettagli assegnati ai tre protagonisti. Ognuno di loro, isolato al centro delle inquadrature, acquista la forza che non aveva. Posti letteralmente al centro della loro solitudine, possono finalmente riconoscersi l’uno nell’altro. Viene in mente il finale di Cacciatore bianco, cuore nero, ma trasfigurato e capovolto nel significato di solitudine.


Grazia Paganelli


Hereafter possiede certamente una struttura narrativa ed alcuni elementi concettuali “banali, strani e rischiosi”, come qualcuno ha osservato: il finale del plot in cui confluiscono le tre storie che scorrono parallele per tutto il film non sorprende nessuno spettatore, ma rientra in una consuetudine ormai molto frequentata; d’altra parte la raffigurazione del presunto “aldilà” pare quanto mai banale e per niente originale. Ma tutto ciò non costituisce altro che una “cornice”, un pretesto grazie al quale si esplica il consueto nucleo della poetica di Eastwood, qui trattato con particolare finezza e delicatezza. Il centro dell’interesse del regista è costituito dalla sofferenza dell’essere umano, dalle sue paure, dalla sua angoscia di fronte alla solitudine, alla malattia inguaribile, al dolore ineliminabile, di fronte alla morte. Non dunque un film sull’aldilà o sulle coincidenze, non un thriller sul soprannaturale, sull’eternità o sulla dimensione spirituale dell’uomo, ma ancora e sempre un’interrogazione sulle nostre profonde debolezze, sui limiti che ci appartengono e che ci fanno soffrire. In questa chiave anche la bellissima sequenza dello tsunami non pare soltanto un eccellente lavoro ottenuto con sofisticati effetti speciali, ma una grande metafora del confine che con nostro terrore ci separa dal caos, dall’imprevisto, dal mistero, dal limite estremo della vita. D’altra parte la storia dei due gemelli è senza dubbio la più straziante, proprio in virtù della sofferenza che caratterizza i due ragazzini e poi, in particolare, quello sopravvissuto. Nutro invece molte perplessità sull’efficacia drammaturgica del personaggio interpretato da un Matt Damon come al solito rigido, legnoso, privo di ironia ed incapace sia di immedesimarsi in modo convincente in un ruolo, sia di estraniarsene con intelligenza. Forse in un film come Invictus questo mediocre attore aveva trovato un personaggio a sua perfetta misura, qui invece confesso di non comprendere il motivo per cui Eastwood lo ha coinvolto in un’operazione che gli rimane del tutto estranea.

Franco Prono


Ho letto su
L’Unità del 5 dicembre un articolo di Alberto Crespi, sotto forma di lettera aperta a Clint Eastwood, in cui scrive: “Sei il più grande regista vivente e su questo non sono ammesse discussioni”. Io mi permetto ovviamente di discutere, a proposito di Hereafter, a cui si riferiva Crespi. Non v’è dubbio che, fra gli ultimi film di Eastwood, questo appare a prima vista forse il migliore, a cominciare dalla prima sequenza dello tsunami. Sono momenti di forte tensione drammatica che introducono la prima delle tre storie di cui è composto il film. Ma, a mio parere, è proprio il trittico, con il parallelismo delle vicende personali che vengono a confluire in un’unica situazione finale, a smascherare, sul piano narrativo e drammaturgico, la fragilità dell’opera, il suo carattere superficialmente spettacolare. Il tema di fondo – la vita e la morte, l'aldiqua e l’aldilà – è troppo forte e intenso per reggere una rappresentazione che non esce dai canoni a cui ci ha abituati Eastwood, tanto efficaci quanto accattivanti. È come se egli volesse, narrando le tre storie parallele col finale gratificante, dirci che la vita ha un senso solo se la si guarda e la si vive in rapporto alla sua fine. Ma il discorso sul significato del vivere e sulle implicazioni ad esso connesse, di natura morale e spirituale, ma anche civile e sociale, è un discorso che richiederebbe ben altro stile, ben altra profondità. Qui si rimane in superficie. E lo tsunami della prima sequenza, che ci turba e ci inquieta, rimane solo uno spettacolo. Non apre la porta a quella tensione drammatica che dovrebbe sorreggere la nostra domanda di fondo sul significato della vita e della morte.

Gianni Rondolino


Come già
Invictus e forse uno di quelli sulla guerra, è un film girato (l'ideologia è un'altra cosa) dal punto di vista di nessuno. Cioè,con perfetta, astratta efficacia molto americana. Che gli consente di non essere ridicolo su un soggetto scivoloso. È un film più ricco di cose di quei film (il montaggio griffithiano di più storie che in fine confluiscono in un unico fiume; bellissime scene, dallo tsunami iniziale, che però resta lì, quasi un prologo, a quelle della scuola di cucina; la recitazione, da quella classica, quasi mperturbabile perchè interiorizzata, di Matt Damon a quelle vissute della ragazza-cuoca e del bambino, ecc.), ma non ci trovo il fondo che informava di sè certi suoi film e li rendeva affascinanti. Non ci trovo nè la visione stoica che passava attraverso il suo corpo e permetteva di dire anche le cose più "scorrette" su donne o gialli o neri, ecc., tipo Million Dollar Baby, ed anche il testamentario Gran Torino, nè la sua variante più radicale, cioè commistionata con quella visione del male che si espande per i rami di Mystic River... A meno di prendere per buona una passione tipo i discorsi sulla pre/post-morte a lampi sibilanti o, ancor peggio, quella vaga indicazione dickensiana. Che, però, non si fanno mai vera visione.

Gianni Volpi



TFF 2010 - Vanishing on 7th Street (Brad Anderson)

Brad Anderson è una figura singolare, un personaggio che percorre in modo imprevedibile l'orbita che circonda la stella dell'audiovisivo. Un regista che ha interpretato in maniera decisamente moderna la sua presenza all'interno del panorama cinematografico/televisivo. Nato nel Connecticut nel 1964, studia in Europa alla London International Film School, specializzandosi come montatore. Seguendo una strada ormai battuta esordisce nel lungometraggio al Sundance Film Festival con The Darie Gap nel 1996. Nel 2001 si fa conoscere dagli amanti dell'horror con Session 9, attraversamento di un manicomio a basso costo e nel 2004, grazie ad una produzione spagnola gira L'uomo senza sonno, divenuto famoso soprattutto per lo sforzo attoriale di Christian Bale. Non contento Anderson offre il suo occhio anche al servizio del piccolo schermo dirigendo l'episodio Rumori e tenebre dei Masters of Horror e circa una decina divisi tra The Shield, The Wire, Fringe e Boardwalk Empire.

Vanishing on 7th Street presentato al Torino Film Festival nella sezione Rapporto confidenziale racconta la storia di Luke, Paul, Rosemary e James, unici sopravvissuti di un blackout che colpisce la città di Detroit. La vita e la morte non dovrebbero essere direttamente in discussione in casi come questo, ma stavolta il buio porta con sé le vite che incontra, lasciando gli abiti quali unica testimonianza delle esistenze scomparse. I quattro eroi si rifugiano nel solo luogo in cui è ancora possibile stare al mondo, un vecchio bar la cui luce artificiale è prodotta da un generatore a benzina posto nel seminterrato. Ma il carburante è destinato a finire.

Il film di Brad Anderson immediatamente dichiara la sua appartenenza all'horror apocalittico che negli ultimi anni, tra cinema a televisione, ha visto nel suo novero una serie crescente di opere. Una volta spenta la luce all'interno della sala si accende quella della macchina da presa di Anderson, che ci propone una storia non nuova dal punto di vista narrativo (il videogioco
Alan Wake è solo uno dei tanti luoghi da cui Vanishing sembra aver pescato), ma con ambizioni teoriche che, almeno in prima istanza, appaiono di grande portata. Si esiste solo se illuminati. Sembra essere questa la proposizione chiave del film, quella che ne racchiude il senso. Così come i colori esplicitano la loro diversità solo se toccati dalla luce, gli uomini del film mantengono la loro presenza corporea solo se visibili. Un incipit che affonda nella dialettica tra luce e buio inserendosi nel rapporto scopico tra presenza e assenza: la visione del sé è subordinata alla visione altrui. Si esiste, dunque, attraverso gli occhi di chi ci osserva, solo se la nostra immagine è riconoscibile da uno sguardo che è altro da noi.

Purtroppo questi buoni presupposti svaniscono dopo mezz'ora di film in favore della tendenza al melodramma sentimentale e alla dichiarazione di velleitari messaggi dal sapore universale. Con un teorema dal ritornello cartesiano i protagonisti del film si convincono di esistere (“mi impongo di esistere ergo sono”), evocando rimandi filosofici, sempre purtroppo sul profilo dello slogan, che in un film apocalittico stonano, per superficialità e inconsistenza, così tanto da suscitare il riso.

Attilio Palmieri

TFF 2010 - Super (James Gunn)


La miniserie in otto numeri
Kick-Ass è sicuramente una delle più significative opere di rilettura del fumetto supereroistico, il più indicativo e venduto genere del mercato americano. L’opera di Millar in generale, pur ragionando, talvolta finemente, sulle specificità della propria forma d’arte, semplifica però di molto le tendenze più recenti del comic americano, linearizzando la narrazione e rendendo di fatto estremamente citabili, e quindi adattabili, le storie dello scrittore scozzese. Soprattutto, le riflessioni di Millar sul fumetto sono spesso a margine della vicenda e quindi, contrariamente a ciò che accade con scrittori a lui accostabili come Morrison, Ellis o Alan Moore, possono essere rimosse facilmente in fase di adattamento.

Super, il film di James Gunn che racconta di un uomo che decide di assumere un’identità segreta per combattere il crimine e arrivare a salvare la moglie dalle grinfie di uno spregevole Kevin Bacon, non è un adattamento diretto dell’opera di Millar (già trasposta sullo schermo, ma ancora inedita in Italia), ma sarebbe impossibile ignorare il debito che mantiene nei suoi confronti. Interessante, però, è sottolineare come la derivazione fumettistica, nel film, sia quasi completamente rimossa. Il protagonista infatti non sceglie di intraprendere la crociata contro il crimine ispirato dalla lettura continuata di determinate testate fumettistiche, bensì da un telefilm a tematica religiosa a cui assiste per caso in televisione, che risveglia in lui la memoria di un primo contatto con Dio nel corso dell’infanzia. La trasformazione in The Crimson Bolt non è di conseguenza il frutto di una rielaborazione personale di modelli superoistici definiti, come invece è per il ragazzino protagonista di Kick-Ass: l’assenza pressoché totale di ammiccamenti ai fan dei comics porta il film verso una ridicolizzazione del concetto stesso di supereroe, più che ad una parodia diretta di modelli acquisiti e depositati nella memoria collettiva.

Diventando indiretto l’apparente referente diretto (che pure sopravvive in molti dei tagli d’inquadratura, bidimensionali o con profondità di campo schiacciate ed esasperate), viene semplice leggere il film di Gunn come una satira di un estremismo religioso di ritorno che affligge l’America degli anni Duemila, che si riconosce in Bush Jr. o in Sarah Palin e che scomoda la religione per giustificare le nuove guerre. Di conseguenza,
Super arriva a identificare il nerd non più come colui che idolatra Batman o Superman e con loro una società profondamente conservatrice, ma colui che idolatra Dio stesso e in suo nome cerca di farsi paladino di un senso vago di giustizia e di famiglia incapaci evidentemente di funzionare. Non a caso, i due disegni che il protagonista mostra all’inizio del film e che rappresentano i momenti più belli della sua vita sono la segnalazione ad un poliziotto del nascondiglio di un fuggitivo e il proprio matrimonio. Intelligentemente però Gunn radica questo aspetto all’interno della diegesi al punto che, se le cose per cui The Crimson Bolt combatte si sfaldano miseramente, la sua chiamata divina lo rende però sostanzialmente immortale, laddove la ragazza appassionata di comics (che quindi aderisce alla crociata per emulazione e non perché convocata direttamente da Dio) finirà per perire al primo scontro a fuoco.

Contemporaneamente, però, se Gunn sa di ritrarre un’America ipocrita e bigotta, sa anche di muoversi all’interno di un genere e di un cinema in cui il
political incorrectness è spesso abusato. La conclusione del film dimostra che oggi non solo un finale consolatorio e assurdamente positivo (l’uomo riesce a godere di ogni cosa che gli accade “tra le vignette”) può essere più divertente di uno giocato su un registro opposto, ma che può addirittura arrivare a commuovere.

Matteo Pollone

TFF 2010 - The Ward (John Carpenter)

La storiografia del cinema horror statunitense è opera, in particolare negli ultimi dieci anni, da attribuirsi anche a fan, blogger e a pubblicazioni ibride come «Fangoria». La creazione di un canone in continuo aggiornamento operata da forum e pubblicazioni amatoriali è uno dei fenomeni più interessanti prodotti dal cinema della contemporaneità. Non sorprende, a tal proposito, la produzione di film evidentemente destinati a solleticare la fan culture (si pensi al cult “a priori” Machete di Rodriguez) e accendere gli interessi degli appassionati.
Il ritorno di John Carpenter dopo un silenzio decisamente lungo interrotto da due notevoli produzioni per la televisione è destinato a generare simili meccanismi di culto. Scorrendo i commenti di chi ha visto il film a Toronto, Sitges o Torino è difficile non individuare una forma radicalizzata nei toni e a volte un po' miope di politica dell'autore. I critici di The Ward sembrano praticare, per il momento, una sorta di caccia al tesoro dei riferimenti carpenteriani piuttosto che l'esercizio dell'analisi.

Ambientato nel 1966, il film racconta di un gruppo di pazienti di un ospedale psichiatrico femminile tormentate dalla presenza di un fantasma. In effetti c'è spazio in abbondanza per la comparatistica carpenteriana. Il manicomio (e la datazione) non possono che rimandare al prologo di
Halloween – La notte delle streghe, mentre l'ambientazione claustrofobica evoca la figura dell'assedio, presente trasversalmente nel cinema dell'autore fin da Distretto 13: le brigate della morte. Se, dunque, la ricerca di continuità stilistiche e tematiche è una pratica ammessa dal film, rimane da chiedersi che servizio si renda all'opera di un autore decisivo nella storia del cinema nordamericano riducendo il suo percorso a una serie di rimandi e autocitazioni. Ovvero, perché ridurre Carpenter a un marchio, accodandosi alla mediocre trovata promozionale del “John Carpenter's” anteposto al titolo del film?

The Ward è in realtà un film difficilmente collocabile non solo all'interno del percorso carpenteriano, ma anche nell'ambito del cinema di genere americano contemporaneo. Da un lato, è certamente vero che si tratta di un'opera coscientemente inattuale, specie considerando la velocità con cui si affastellano le diverse new wave dell'horror statunitense. Difficile accostare The Ward alle correnti più à la page del cinema dell'orrore americano; il film di Carpenter non ricorre al citazionismo e alla parodia, è sorprendentemente parco di dettagli gore e non imbastisce meccanismi metanarrativi di particolare rilevanza. L'autore sembra piuttosto cercare un dialogo con quella vena ormai emersa in seno al cinema americano che tematizza il sogno e l'allucinazione nel tentativo di ridefinire gli spazi della narrazione. Si può pensare all'ospedale di Carpenter come a un gemello dell'isola dello Scorsese di Shutter Island. In entrambi i casi l'idea di confine sembra applicarsi tanto all'invalicabilità delle mura (o, nel caso di Scorsese, all'impossibilità di fuggire dall'isola), quanto alla porosità delle membrane che separano gli stati mentali. Carpenter non evoca necessariamente i fantasmi della mente, ma concretizza fantasmi che provengono dalla mente e invadono lo spazio labirintico della clinica. The Ward, pur modesto nei mezzi e, in alcuni casi, nella messa in scena, è un film che sembra riallacciare il dialogo tra un cinema di genere incomprensibilmente ghettizzato dalle meccaniche del fandom e le intuizioni più alte del cinema americano contemporaneo.

Riccardo Fassone

TFF 2010 - This Movie Is Broken (Bruce McDonald)

Le perplessità che questo film suscita portano a considerare altri elementi che non la sterile assurdità della trama. This Movie Is Broken si pone esattamente a metà tra un documentario sulla band protagonista e una storia indie post-adolescenziale. Sulla carta può uscirne qualcosa di ottimo (del resto, i Broken Social Scene sono uno dei più importanti gruppi del panorama musicale indipendente e Bruce McDonald è il regista di Ponty Pool, acclamato allo scorso Torino Film Festival). Il problema, però, sta nella natura dell’esperimento: McDonald non cerca una commistione degli elementi, si limita a sommare le due anime. Non ragiona sugli scarti e sulle differenze sostanziali in grado di generare una narrazione “ibrida” e, al tempo stesso, convincente. È un lavoro che, pur partendo dai suoi punti di forza – il macroevento del concerto dei Broken Social Scene e la storia d'amore tra i due protagonisti – li tratta come materiali qualunque. Non riflette sulla forza specifica dei soggetti, ma costruisce una narrazione piatta che potrebbe andare bene per ogni situazione, ogni trama e ogni gruppo musicale.

Andando oltre, è proprio la regia di
This Movie Is Broken a non funzionare. McDonald guida la costruzione di senso con una mano pesantissima che si concentra su primissimi piani e su dettagli in maniera ossessiva, claustrofobica, quasi pornografica. Lo schermo è costantemente occupato da corpi, vestiti, pelle, parti di strumenti musicali. Un horror vacui che porta all’attesa spasmodica per un allargamento di campo. Ironicamente, il primo piano diventa un elemento liberatorio.

Probabilmente McDonald si concentra su questi elementi per suggerire il sentimento di oppressione, alienazione e insicurezza dei giovani globalizzati che vogliono uscire dall’adolescenza. In questo caso, probabilmente, avrebbe dovuto cercare qualcosa capace di andare oltre una semplice somma delle parti: i materiali di partenza di
This Movie Is Broken sono talmente specifici da meritare una trattazione che ragiona per “fusione”, e non per somma delle parti. Del resto, la forza della musica dei Broken Social Scene (qui visti come vettore catartico) sta proprio nello scrivere canzoni capaci di collegarsi a vari generi, tradizioni, testi, musiche e immaginari. I loro dischi non sono “addizioni”, bensì fusioni, riflessioni, aperture, passi in avanti. Concerto e storia d’amore sembrano unirsi con naturalezza ma vivono tutti e due dinamiche proprie e, per questo, non automaticamente sovrapponibili. Il cinema americano indipendente usa in maniera caratteristica il sottofondo musicale per tratteggiare le relazioni personali cercando, per l’appunto, di trovare i punti di contatto tra i due testi così da farli dialogare. I sillogismi semplici appaiono ridondanti e amplificano il loro mal funzionamento. McDonald sovrappone senza preoccuparsi del dialogo mancato.

Hamilton Santià

TFF 2010 - Winter's Bone (Debra Granik)


Ree vive in una zona prevalentemente montuosa del Missouri e, a causa delle malattia non meglio precisata della madre, deve prendersi cura dei due fratelli più piccoli. La vita però si rende ancora più complicata quando la ragazza scopre che il padre, noto produttore e spacciatore di sostanze stupefacenti, esce di galera e garantisce la loro casa come cauzione qualora lui non si fosse presentato all’udienza successiva. La ricerca del padre diventa per la ragazza - che non si arrende - sinonimo di disperazione e violenza subita.

È ormai visibile a tutti una certa tendenza riscontrabile nelle trame dei film vincitori al Sundance Film Festival da due anni a questa parte: vengono predilette le storie aventi come protagoniste donne di carattere forte e tenace, che non sognano un mondo migliore bensì semplicemente una vita normale. Basti pensare a Frozen River di Courtney Hunt (in cui ritorna lo scenario invernale) dove una donna sceglie l’illegalità per garantire una nuova casa prefabbricata ai suoi figli oppure a Precious che racconta di una diciassettenne (la stessa età di Ree) picchiata e stuprata dal padre, che decide di riscattarsi attraverso l’iscrizione a una scuola con un programma “speciale” e, soprattutto, decidendo di tenere il bambino che ha in corpo.

Sono storie perlopiù ambientate nell’America profonda, quella xenofoba e guerrafondaia che crede nell’alcool (o nella droga) come soluzione estrema a ogni male, ma che però è muta, non riesce a esprimersi perché non è andata a scuola e preferisce l’uso del fucile alle parole. È l’America che vota Bush e non Obama perché non vuole la presenza assidua del governo federale all’interno dei suoi confini “auto”- stabiliti, preferendo il darwinismo sociale alla legge.

La regista dipinge la comunità dove vive Ree attraverso reminescenze di genere che richiamano alla memoria in maniera esplicita certe atmosfere western riconducibili a film come The Ox-Bow Incident di William Wellman. Questi nazionalisti fanatici (si noti l’esubero delle bandiere stelle e strisce), che conoscono solo l’arte della guerra e l’arruolamento nell’esercito come unica possibilità di riscatto finanziario e morale, sono i diretti discendenti dei protagonisti di Wellman.

Non bisogna infatti pensare a Winter’s Bone come a un semplice trattato sociologico che mostra l’America profonda e i suoi tratti più inspiegabili, perché è nell’accostamento di generi (non solo il western, ma anche il noir, l’horror e il thriller) che la pellicola della Granik trova compimento. La ricerca del padre scomparso – o come dicono gli stessi americani “che ha traslocato in favore delle tenebre” – si affolla di misteri e di domande senza risposta. Ree entra in conflitto con le abitudini tribali di una comunità che vive grazie al narcotraffico e, di casa in casa, di ferita in ferita (prima morale, poi anche fisica), riesce ad andare in profondità arrivando a scoprire “lo scheletro” del mistero che aleggia sulla scomparsa del padre, giungendo a toccare il cuore barbarico dell’America, così come il film quello archetipico del cinema americano.

Winter’s Bone risulta sicuramente ammirevole per la linearità e il rigore tragico – quasi disperato – che assume l’andamento del racconto, mentre lo stesso paesaggio esterno acquisisce il carattere cupo e claustrofobico di una messa in scena in interni. Anche se talvolta la regista ricorre ad alcune convenzioni abusate nella rappresentazione dell’America profonda - la presenza della musica metal come metonimia della violenza - il film acquisisce sicuramente, anche grazie alla totale mancanza di colonna sonora e a una fotografia molto brutale e immediata, l’accezione di descrizione dura, livida, ma soprattutto reale. Proprio per questo motivo l’ultima sequenza (Ree e i due fratelli sono seduti vicino al portico e la figlia minore accenna un motivetto country al banjo) non ricorre al consueto schema fiabesco che vede il Male sconfitto dal Bene, bensì si risolve in una sospensione, un finale aperto verso la speranza.

Mariella Lazzarin

sabato 18 dicembre 2010

TFF 2010 - White Irish Drinkers (John Gray)



White Irish Drinkers non si perde in prologhi, non indugia in riempitivi iniziali, mette immediatamente le carte in tavola chiarendo fin da subito le premesse e gli obiettivi. Innanzitutto quelli tematici: ad essere raccontata è la storia di una famiglia di irlandesi trapiantata a New York, di umile ceto sociale e alle prese con il conflitto tra un’amara realtà con cui necessariamente fare i conti e l’utopia di una vita diversa, da benestanti, da americani. Il tentativo è quello di impostare tale racconto su una struttura proteiforme che veda come fulcro Brian Leary, il più giovane tra i due figli, dal quale si diramino strade narrative che lo legano alla famiglia, al lavoro, agli amici; ambienti e situazioni raccordate dalla presenza comune del protagonista, adempiendo in questo modo sia alla completa connotazione del personaggio di Brian, sia alla rappresentazione totale dell’universo pubblico e privato che lo circonda.

Terminano qui, purtroppo, i meriti del film, le cui potenzialità sono ben lontane da ciò che appare sullo schermo e fin da subito è evidente che i problemi riguardano svariati frangenti dell’opera. Le scelte stilistiche sono una delle condanne del film: il registro complessivo è appiattito su un patetismo eccessivo ed insensato, privo di ogni giustificazione narrativa, affibbiando una condanna inappellabile alla verosimiglianza e alla credibilità del racconto. Tutto ciò è accentuato da una regia schizofrenica che alterna l’invisibilità dell’istanza narrante ad un pedinamento con macchina a spalla estremo, senza che questi siano motivati dal alcun accadimento narrativo o mutamento ritmico.

La scrittura però è il settore che presenta più problemi: la costruzione dei personaggi non riesce mai a sganciarsi dallo stereotipo: si va dall’abusatissimo padre violento, conservatore e alcolista, al figlio maggiore aggressivo verso il fratello, ma solo perché vittima della brutalità del genitore; dalla madre mansueta, mediatrice all’interno del nucleo familiare e disposta sempre e comunque a sopportare ogni atrocità, al figlio minore cresciuto con il sogno di emanciparsi da una condizione sociale e familiare bigotta e repressiva, con aspirazioni artistiche e capacità inespresse, ma senza il coraggio di abbandonare la propria casa.

Il tentativo di mettere in scena al contempo sia un ritratto domestico, sia un affresco sociale così ambizioso fallisce clamorosamente sfociando in una sagra degli stereotipi in cui la retorica fa la gara con il patetismo, specie nel finale in cui si prova persino un certo imbarazzo quando si scopre che anche il fratello maggiore aveva velleità artistiche, ma represse non si sa se dalle sue scarse capacità, dalla poca determinazione o dalla inesistente fiducia in se stesso. Epilogo in cui non possono mancare le attesissime lacrime del burbero padre, che solo con la morte del figlio che ha sempre malmenato – ma segretamente amato - mostra un momento di debolezza e “va al tappeto”.

Attilio Palmieri

giovedì 16 dicembre 2010

Un giorno al cinema - Gli amici di Georgia (Arthur Penn, 1981)

Nell'ambito della rassegna Un giorno al cinema - Quarta giornata del cine a Torino organizzata dall'Associazione Museo Nazionale del Cinema, gli ultracorpi renderanno omaggio a Arthur Penn, regista recentemente scomparso, presentando Gli amici di Georgia (Four Friends, 1981).


[...] Dentro una struttura caleidoscopica, densa di riferimenti ai motivi dei film precedenti, Penn cerca una saldatura tra realtà e finzione. Crea una fine tessitura in cui si situano la metafora del vedere poco chiaro e indistinto del protagonista, ferito all’occhio destro, la metafora della perdita delle illusioni, e la rapprsentazione delle aspirazioni alternative di un gruppo di giovani che respingono, pur senza avere una «coscienza sociale», le istituzioni famigliari e l’integrazione. Penn rifiuta la trasparenza narrativa e opera come autorevoli registi “complessi” quali Altman o Cassavetes (ad esempio, fa uscire momentaneamente il protagonista Danilo dal flusso degli eventi, per dare alcune informazioni sulla sua vita). Ma, a differenza di The Little Big Man, la figura del narratore è oscillante: la sua voce ritorna presto dentro la finzione e non è udibile se non per brevi tratti, affidata a personaggi secondari, come la vicina di casa Prozor, che riferisce sul tempo trascorso. In Four Friends non si tratta di raccontare la Storia (di sovrapporre all’azione una voce “oggettiva” che dia omogeneità e ordine agli eventi) ma di iscrivere la realtà storica e sociale contemporanea degli Stati Uniti in un flusso temporale disteso sull’arco di quattordici anni, dalla metà degli anni cinquanta alla fine dei sessanta; e di iscrivere i processi storici nelle storie personali dei quattro personaggi. Anche qui Penn rovescia la convenzione del cinema americano che vuole storie di personaggi finalizzate alla rappresentazione della Storia e piccoli eventi trasformati in grandi accadimenti. [...]

Paolo Vernaglione, Arthur Penn, Firenze, La Nuova Italia, 1987

Giovedì 16 Dicembre 2010
ore 19 - Cinema Romano
Il film sarà introdotto dalla prof.ssa Giulia Carluccio, da Matteo Pollone e da Hamilton Santià

mercoledì 15 dicembre 2010

TFF 2010 - Workers Leaving The Factory: Dubai (Ben Russell)

“Il radicamento è forse l’esigenza più importante e più misconosciuta dell’anima umana. È tra le più difficili a definirsi. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice.”
La condizione operaia, Simone Weil

1. Antropologia
Gli operai uscivano dalle officine Lumière nel 1895 ed escono ancora dagli stessi cancelli, ma il mondo intorno a loro è cambiato, tanto da poter sembrare un altro pianeta. Un pianeta alieno. La macchina da presa di Auguste e Louis era lì, all’ingresso della fabbrica, come quella di Ben Russell sta oggi alle porte di un cantiere a Dubai. Immobile e silenziosa, la scena si manifesta di fronte al suo unico occhio “come un microorganismo sotto la lente di un biologo, o come le stelle si muovono davanti al telescopio di un astronomo” (N. Burch, Il lucernario dell'infinito, Il Castoro, 2001, p. 25). Lo sguardo di Russell, fotocopia di quello dei Lumière, è lo sguardo scientifico di un antropologo; lo scarto che nitidamente registra, rispetto alle loro immagini tremolanti, racconta ciò che è stato rubato al nostro tempo mentre eravamo voltati dall’altra parte, ignari di tutto.

2. Solitudini
Gli uomini che la sera lasciano uno dei tanti cantieri di Dubai, lo fanno con passo stanco, in fila indiana, senza parlarsi se non per qualche rapido commento sulla presenza della camera lasciata in vista dall’artista americano. La massa vitale che fuoriusciva come una colata di lava dalla fabbrica appartiene alla preistoria. Gli operai nella contemporaneità post-industriale vivono la stessa condizione di disagio e subalternità ma ciascuno la vive a suo modo. I loro occhi sfilano lenti, bassi e lontani, urlando una solitaria disperazione.

3. Nemico
Oggi dalla fabbrica non esce nessun padrone, ma questo non vuol dire che chi comanda sia sparito, semplicemente sta ora da un'altra parte, distante e veloce, per poter controllare senza essere visto . Il potere non vuole più incutere timore e rispetto come faceva la grande carrozza attraversando la porta della usine Lumière tra ossequiosi cappelli alzati. Essere riconoscibili significa subirne le conseguenze. A Dubai come a Torino o in Serbia il nemico non si lascia guardare negli occhi, e così chi dovrebbe combatterlo finisce col pensare non sia reale.

4. Sradicati
Alle spalle dei lavoratori la città cresce, ricoprendo un tramonto dai colori sintetici. Gli uomini che l’hanno eretta salgono però su grandi camion per andare altrove; devono sparire perché il nuovo mondo possa nascere. Nel 1895, gli operai usciti dai cancelli dell’officina andavano ad abitare luoghi costruiti pezzo dopo pezzo. Il mondo di allora gli apparteneva, recava i loro segni sulla propria superficie e i racconti delle loro vite costituivano la Storia. Oggi, nel deserto scintillante delle nuove Las Vegas, non c’è spazio per l’ombra che tutta quella luce lascia dietro di sé e il volto di chi lavora, con la sua imbarazzante fatica scritta tra le pieghe della carne, va nascosto, cosicché qualcuno possa cantare felice la fine della Storia.

5. Umani
Ben Russell rifiuta qualunque discorso di natura post-moderna e attraverso il silenzio assordante della sua immagine, citazione tutt’altro che giocosa, ci ricorda che malgrado il nostro divertimento nel dare nuovi nomi alle cose, la realtà per un numero enorme di uomini non cambia. Gli operai uscivano e continueranno a uscire dalla fabbriche anche se lontani dai nostri occhi pigri e ciò non dipende da nessuna questione di interpretazioni: “Anche nella favolosa Atlantide/nella notte che il mare li inghiottì, affogarono/implorando aiuto dai loro schiavi” (B. Brecht, Domande di un lettore operaio, in Poesie, Einaudi, 2007). Non ci attende nessun destino post-umano.

Andrea Mattacheo

lunedì 13 dicembre 2010

TFF 2010 - Cyrus (Jay e Mark Duplass)


John, il personaggio che John C. Reilly interpreta in Cyrus di Jay e Mark Duplass, è un uomo insoddisfatto della propria vita, specie sentimentale, che indulge nell’autocommiserazione e nella trascuratezza. L’occasione di riscatto sarà la conoscenza occasionale di Molly, della quale ben presto s’innamora, ricambiato, tanto da scatenare la gelosia del figlio di lei, Cyrus.

Uno degli aspetti più interessanti di Cyrus è sicuramente il suo volersi fare manifesto di quel sottomovimento del cinema indipendente americano chiamato mumblecore, composto prevalentemente da commedie girate con budget ridottissimi, realizzate lasciando grande spazio all’improvvisazione da parte di attori non professionisti e un uso pressoché esclusivo della macchina a mano, di troupe leggere e di riprese in digitale. Se l’ambizione al successo di pubblico e critica effettivamente ottenuto in questi mesi di programmazione sacrifica però una delle regole non scritte del genere, affidando i ruoli principali ad attori di richiamo (per tacere dei fratelli Scott alla produzione esecutiva), soprattutto da un punto di vista visivo i fratelli Duplass seguono invece rigorosamente i dettami di un cinema che loro stessi hanno contribuito a creare. Non solo vi è l’utilizzo della sola cinepresa a mano, ma un’insistenza nell’impiego dello zoom, specie diretto al volto degli attori, che sembra voler escludere tutto ciò che esiste al di fuori di essi e della parte che stanno interpretando. Come molti film mumblecore, Cyrus è costruito esclusivamente sul rapporto tra personaggi, escludendo a priori la rappresentazione di un contesto non solo sociale o politico, ma anche solo familistico o casalingo che ha fatto la fortuna dei principali film indipendenti americani degli anni Duemila. Lo zoom, quindi, diventa una cifra stilistica che esplicita la volontà di concentrasi sui pochi personaggi prigionieri delle loro solitudini, senza voler creare una vicenda “esemplare”, pur nella sua deformità, come potevano essere quelle di Happiness di Solondz o del più recente Il calamaro e la balena di Baumbach. Tale concentrazione, che è anche spaziale (il film è ambientato in non più di cinque locations) funziona anche ad un altro livello, tipico del movimento mumblecore, quello dell’ammiccamento metafilmico già sperimentato dai Duplass nel precedente Baghead e qui veicolato dal fatto che il film è basato, nella sua totalità, sull’improvvisazione. L’insistenza sui volti degli attori, sottolineata appunto dagli zoom brutali e apparentemente gratuiti, rende esplicito il gioco dell’improvvisazione, e fa del film una sorta di prova filmata, di esercizio di recitazione che i Duplass mettono in scena come si metterebbe in scena un backstage, tranne poi dover forzatamente ricorrere ad un montaggio e un utilizzo di piani di ripresa più articolato (si veda la scena del coltello) per fare in modo che il pubblico possa godere appieno delle gag che nel film si susseguono a intervalli piuttosto distanti ma regolari. Anche la macrostruttura narrativa, con il suo rigoroso gioco di simmetrie interne apparentemente in contraddizione con i presupposti teorici ha, infine, ben poco del casuale e dell’improvvisato. Se la patina è quella di un film che rifiuta una struttura rigida sia al momento della sceneggiatura che in quello delle riprese, il risultato finale non è che un’ordinaria commedia, e sorge il sospetto che i fratelli Duplass abbiano scritto e diretto un film caratterizzato da una così marcata volontà di non avere uno stile da diventare invece immediatamente maniera.

Matteo Pollone

domenica 12 dicembre 2010

TFF 2010 - Kaboom (Gregg Araki)


Dopo il racconto di un'infanzia rimossa in Mysterious Skin e dei ménage à trois in Splendor, Araki forza ancora le cifre contenutistiche che più gli sono care in Kaboom riportando in scena i soggetti ricorrenti all'interno della sua opera, specie la generazione X, l'apocalittica "Doom Generation".
La vita - apparentemente tranquilla - di Smith, un ragazzo bisessuale a cui “non piacciono le etichette” coinvolge infatti una serie di ventenni dalle personalità molto strambe: Thor, il suo compagno di stanza dalle chiare tendenze omosessuali, anche se ama il surf e odia i gay, il cui nome fa sicuramente più riferimento all'alto biondo e muscolosissimo eroe dei fumetti Marvel piuttosto che al personaggio dell'opera di Wagner; la migliore amica del protagonista, Stella, che è invischiata in una relazione sessuale con una donna che in realtà è una strega dai poteri soprannaturali e il Messiah (interpretato da James Duval attore feticcio nel cinema del regista), un relitto umano che fuma marijuana e urla alla fine del mondo.
È impossibile però considerare Araki come un regista che racconta una “gioventù bruciata”: i suoi personaggi – i “suoi” giovani – sono da contestualizzare all'interno di uno scenario più ampio, un certo tipo di cultura prevalentemente americana – la cultura dello stesso artista – infarcita di suggestioni fumettistiche, Pop Art, commedia nera, richiami al cinema di Lynch, cyberpunk e letteratura americana contemporanea (chiaramente Bret Easton Ellis) che non costruiscono l'adolescente ma solo la sua immagine distorta immediatamente comprensibile solo da chi ha avuto lo stesso tipo di formazione.
Queste diversissime personalità che sembrano estrapolate da una teen comedy americana hanno ben poco a che fare con la sfrontatezza e il disincanto (omicida) dei “Natural Born Killers” delle prime opere di Araki. Ricordiamo a questo proposito la prima sequenza di The Doom Generation in cui la macchina da presa dopo essersi soffermata sul nome della discoteca “Welcome to Hell” inquadra la giovane protagonista del film che accoglie gli spettatori con un insulto (“stronzi”) chiaramente diretto al mondo intero.

La nuova (?) generazione drogata e dannata di Araki perde la cattiveria e la contrapposizione tra giovani e società lasciando posto invece a una riflessione sulla realtà che diventa sogno, sul banale che si rende incubo, sul quotidiano che muta in visione mostruosa. Opposti che Araki alterna attraverso l'uso di due registri contrapposti, il primo strettamente preparatorio – in cui vengono presentate le abitudini soprattutto sessuali dei personaggi – lascia spazio a metà del film al secondo dove viene evocato il soprannaturale à la Twin Peaks. In entrambe le parti Araki fortunatamente aggiunge, rendendolo centrale all'interno del mood del film, il registro comico plasmato su un umorismo nero anch’esso più innocuo e fondamentalmente più divertente rispetto alle prime opere. Facezie intelligenti e politically scorrect di un regista che non si vuole prendere troppo sul serio e seppur avvicinatosi al carattere mainstream non perde il coraggio che da sempre lo contraddistingue (“Are you worried?” chiede un personaggio; l'altro risponde: “Does Mel Gibson hate Jews?”). In questo senso è peculiare la scelta di Araki di utilizzare una fotografia patinata tipica delle sit-com americane e un montaggio serrato quasi da videoclip ampiamente contrastati nella seconda parte del film dall'uso della macchina a mano.
Molto significativa all'interno della pellicola è l'utilizzo della musica – o ancora – di un certo tipo di musica propria di una controcultura particolare e giovanilistica, la new wave degli anni Ottanta e i suoi epigoni, una musica dai toni oscuri e apocalittici che chiude il film con The Bitter End dei Placebo: appunto, una fine amara.

Mariella Lazzarin

sabato 11 dicembre 2010

TFF 2010 - Jack Goes Boating (Philip Seymour Hoffman)


Jack è la quintessenza del protagonista
indie degli ultimi anni: uno sfigato eterno giovane con parecchie difficoltà a relazionarsi. C’è, però, una differenza fondamentale: Jack vuole uscirne. Uscirne davvero. Ed è su questa variazione che Hoffman decide di lavorare. La sua macchina da presa rispetta sì tutti i dettami stilistici del cinema Sundance degli ultimi anni (pochi movimenti di macchina, prevalenza del primo piano…), ma li usa per tratteggiare la graduale crescita del personaggio: come se la maturazione dell’attore coincidesse con la maturazione del regista.

Questa consapevolezza può essere il frutto della carriera di Hoffman che, da autentico esponente dell’universo indipendente, conosce tutti i modi per rappresentare una storia senza cadere nel tranello che negli ultimi anni sembra aver depauperato questo tipo di cinema: l’autoindulgenza. Non è un caso, quindi, che i dettagli su cui si concentra sono gli elementi che permettono la vera “emancipazione”: le mani con cui Jack impara a nuotare e cucinare, gli occhi di Connie che passano dall’insicurezza alla felicità, le smorfie con cui Clyde e Lucy sottolineano un rapporto che si rompe vestendo d’inquietudine le nevicate di New York, storicamente legate a tutt’altro immaginario.

C’è una sequenza che spiega perfettamente la differenza tra
Jack Goes Boating e il prodotto medio da Sundance: il protagonista cerca di ritirare un modulo da compilare (un nuovo lavoro, il primo step per “uscire dall’adolescenza” e trovarsi qualcosa di meglio che non sia l’autista di limousine nella ditta di suo zio) ma, arrivato in ritardo, si vede respinto dall’inflessibile burocrate di turno. Il personaggio “tipo” del cinema indipendente avrebbe reagito in due modi. Uno: avrebbe osservato la scena con una certa inespressività, con conseguente effetto ironico. Due: sarebbe esploso in un’esagerata manifestazione di violenza. Jack, invece, si limita ad arrabbiarsi. Manda a quel paese il suo avversario dall’altra parte del vetro e gli urla un insulto: rabbia repressa, ma perfettamente umana.

Il senso di
Jack Goes Boating va probabilmente cercato in questa capacità di trattare e tratteggiare l’umano e i suoi sentimenti seguendo il naturale flusso degli eventi. Non forza, non cerca una spettacolarità sui generis, non segue gli stereotipi del prodotto “average”, non strizza l’occhio costruendo un elaborato sistema di citazioni (vedi la musica: la presenza di gruppi come Grizzly Bear e Fleet Foxes è perfettamente in linea, ma vero tema ricorrente del film è Rivers Of Babylon dei Melodians, un brano reggae). Il punto forte dell’esordio di Philip Seymour Hoffman è quindi un’onestà che, se da un lato non lascia niente all’immaginazione mettendo in scena “tutto”, dall’altro offre la possibilità di un’apertura capace di guardare quella fetta di America che vuole superare lo stallo.

Hamilton Santià