Con Jackie Brown Tarantino nuovamente sorprende e spiazza tutti: cambia radicalmente registro senza per questo snaturarsi come autore, ma anzi, procedendo verso una maturazione che passa anche per il rapporto tra vuoti e pieni del suo cinema, impegnato nel dimostrare che la sua natura è multiforme e asistematica, non riconducibile solamente a ciò che si diceva di lui dopo i primi due lavori. Viene abbandonata quella che sembrava poter diventare il suo marchio di fabbrica, ossia la manipolazione del tempo all'interno della narrazione e la disarticolazione della stessa. In questo caso si procede secondo un narrazione classica in cui nascono per la prima volta nel cinema dell'autore personaggi forti – non a caso per la prima volta il titolo del film è il nome della protagonista – in grado di possedere, controllare la storia ed intervenire su di essa. Se in Pulp Fiction Vincent Vega poteva morire sparato in pieno petto da Butch per poi comparire nuovamente nella sequenza successiva – chiara evidenza della sudditanza gerarchica del personaggio alla narrazione – in Jackie Brown i protagonisti sono così solidi, talmente caratterizzati e incisivi da piegare una delle marche autoriali del regista di Kill Bill e addomesticarla, fluidificarla, portandola fino ad una linearità classica perfetta per i loro caratteri.
Anche il montaggio subisce una brusca variazione assumendo ritmi molto più bassi, acquistando linearità e abbandonando quei caratteri eccentrici che avevano contraddistinto i film precedenti come l'uso di split screen e sovraimpressioni. La violenza perde quella dimensione iperrealista e iperbolica della quale la scena del taglio dell'orecchio ne Le iene è ancora oggi uno dei frammenti più rappresentativi. Come se non bastasse Tarantino non si concentra (come ci si sarebbe aspettato) sul gangster del film, ma sulla storia d'amore tra l'hostess afroamericanaJackie Brown e il garante di cauzioni Max Cherry. Entrambi i personaggi – ma non solo questi due - vengono sviluppati in profondità nell'arco di due ore e quaranta minuti in cui emergono sempre più chiare le tematiche del riscatto e della redenzione: entrambi i sono accomunati da un passato ed un presente dal quale vogliono fuggire, del quale vogliono liberarsi in favore di una vita nuova. L'occasione non tarderà ad arrivare.
Attilio Palmieri
La dimensione di Vanishing Point è quella del film di culto. Pellicola in grado di colpire l’immaginario della sottocultura (non a caso, molte letture si concentrano sul testo come commento all’ansia ondivaga degli Stati Uniti post-Woodstock), di diventare icona “pop” e di essere quindi assimilata, sfruttata, riproposta e ripersonalizzata. Sarà a Kowalski, the last american hero, che guarderà Stuntman Mike in Death Proof (2007, Quentin Tarantino). Sarà al film che penseranno gli inglesi Primal Scream nello spingere ancora più in là i limiti della loro musica in Vanishing Point del 1997. I campionamenti dal film aprono un lavoro musicale che, come in Sarafian, cerca di usare le strutture come dei pretesti per andare oltre il confine: un rock contaminato, martellante, “liquido”.
La musica della colonna sonora, il rumore dei motori, il sole del deserto, sono tutti elementi attivi per un film che, annullando la narrazione, cerca di costruirne una nuova e perfettamente in grado di rappresentare un certo “stato di pensiero” di un paese ossessionato dalla ricerca di un punto di riferimento. Ma dove porta la ricerca? All’orrizonte non si vede nient’altro che un punto. Un punto di fuga.
Hamilton Santià