lunedì 13 dicembre 2010

TFF 2010 - Cyrus (Jay e Mark Duplass)


John, il personaggio che John C. Reilly interpreta in Cyrus di Jay e Mark Duplass, è un uomo insoddisfatto della propria vita, specie sentimentale, che indulge nell’autocommiserazione e nella trascuratezza. L’occasione di riscatto sarà la conoscenza occasionale di Molly, della quale ben presto s’innamora, ricambiato, tanto da scatenare la gelosia del figlio di lei, Cyrus.

Uno degli aspetti più interessanti di Cyrus è sicuramente il suo volersi fare manifesto di quel sottomovimento del cinema indipendente americano chiamato mumblecore, composto prevalentemente da commedie girate con budget ridottissimi, realizzate lasciando grande spazio all’improvvisazione da parte di attori non professionisti e un uso pressoché esclusivo della macchina a mano, di troupe leggere e di riprese in digitale. Se l’ambizione al successo di pubblico e critica effettivamente ottenuto in questi mesi di programmazione sacrifica però una delle regole non scritte del genere, affidando i ruoli principali ad attori di richiamo (per tacere dei fratelli Scott alla produzione esecutiva), soprattutto da un punto di vista visivo i fratelli Duplass seguono invece rigorosamente i dettami di un cinema che loro stessi hanno contribuito a creare. Non solo vi è l’utilizzo della sola cinepresa a mano, ma un’insistenza nell’impiego dello zoom, specie diretto al volto degli attori, che sembra voler escludere tutto ciò che esiste al di fuori di essi e della parte che stanno interpretando. Come molti film mumblecore, Cyrus è costruito esclusivamente sul rapporto tra personaggi, escludendo a priori la rappresentazione di un contesto non solo sociale o politico, ma anche solo familistico o casalingo che ha fatto la fortuna dei principali film indipendenti americani degli anni Duemila. Lo zoom, quindi, diventa una cifra stilistica che esplicita la volontà di concentrasi sui pochi personaggi prigionieri delle loro solitudini, senza voler creare una vicenda “esemplare”, pur nella sua deformità, come potevano essere quelle di Happiness di Solondz o del più recente Il calamaro e la balena di Baumbach. Tale concentrazione, che è anche spaziale (il film è ambientato in non più di cinque locations) funziona anche ad un altro livello, tipico del movimento mumblecore, quello dell’ammiccamento metafilmico già sperimentato dai Duplass nel precedente Baghead e qui veicolato dal fatto che il film è basato, nella sua totalità, sull’improvvisazione. L’insistenza sui volti degli attori, sottolineata appunto dagli zoom brutali e apparentemente gratuiti, rende esplicito il gioco dell’improvvisazione, e fa del film una sorta di prova filmata, di esercizio di recitazione che i Duplass mettono in scena come si metterebbe in scena un backstage, tranne poi dover forzatamente ricorrere ad un montaggio e un utilizzo di piani di ripresa più articolato (si veda la scena del coltello) per fare in modo che il pubblico possa godere appieno delle gag che nel film si susseguono a intervalli piuttosto distanti ma regolari. Anche la macrostruttura narrativa, con il suo rigoroso gioco di simmetrie interne apparentemente in contraddizione con i presupposti teorici ha, infine, ben poco del casuale e dell’improvvisato. Se la patina è quella di un film che rifiuta una struttura rigida sia al momento della sceneggiatura che in quello delle riprese, il risultato finale non è che un’ordinaria commedia, e sorge il sospetto che i fratelli Duplass abbiano scritto e diretto un film caratterizzato da una così marcata volontà di non avere uno stile da diventare invece immediatamente maniera.

Matteo Pollone

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