sabato 18 dicembre 2010

TFF 2010 - White Irish Drinkers (John Gray)



White Irish Drinkers non si perde in prologhi, non indugia in riempitivi iniziali, mette immediatamente le carte in tavola chiarendo fin da subito le premesse e gli obiettivi. Innanzitutto quelli tematici: ad essere raccontata è la storia di una famiglia di irlandesi trapiantata a New York, di umile ceto sociale e alle prese con il conflitto tra un’amara realtà con cui necessariamente fare i conti e l’utopia di una vita diversa, da benestanti, da americani. Il tentativo è quello di impostare tale racconto su una struttura proteiforme che veda come fulcro Brian Leary, il più giovane tra i due figli, dal quale si diramino strade narrative che lo legano alla famiglia, al lavoro, agli amici; ambienti e situazioni raccordate dalla presenza comune del protagonista, adempiendo in questo modo sia alla completa connotazione del personaggio di Brian, sia alla rappresentazione totale dell’universo pubblico e privato che lo circonda.

Terminano qui, purtroppo, i meriti del film, le cui potenzialità sono ben lontane da ciò che appare sullo schermo e fin da subito è evidente che i problemi riguardano svariati frangenti dell’opera. Le scelte stilistiche sono una delle condanne del film: il registro complessivo è appiattito su un patetismo eccessivo ed insensato, privo di ogni giustificazione narrativa, affibbiando una condanna inappellabile alla verosimiglianza e alla credibilità del racconto. Tutto ciò è accentuato da una regia schizofrenica che alterna l’invisibilità dell’istanza narrante ad un pedinamento con macchina a spalla estremo, senza che questi siano motivati dal alcun accadimento narrativo o mutamento ritmico.

La scrittura però è il settore che presenta più problemi: la costruzione dei personaggi non riesce mai a sganciarsi dallo stereotipo: si va dall’abusatissimo padre violento, conservatore e alcolista, al figlio maggiore aggressivo verso il fratello, ma solo perché vittima della brutalità del genitore; dalla madre mansueta, mediatrice all’interno del nucleo familiare e disposta sempre e comunque a sopportare ogni atrocità, al figlio minore cresciuto con il sogno di emanciparsi da una condizione sociale e familiare bigotta e repressiva, con aspirazioni artistiche e capacità inespresse, ma senza il coraggio di abbandonare la propria casa.

Il tentativo di mettere in scena al contempo sia un ritratto domestico, sia un affresco sociale così ambizioso fallisce clamorosamente sfociando in una sagra degli stereotipi in cui la retorica fa la gara con il patetismo, specie nel finale in cui si prova persino un certo imbarazzo quando si scopre che anche il fratello maggiore aveva velleità artistiche, ma represse non si sa se dalle sue scarse capacità, dalla poca determinazione o dalla inesistente fiducia in se stesso. Epilogo in cui non possono mancare le attesissime lacrime del burbero padre, che solo con la morte del figlio che ha sempre malmenato – ma segretamente amato - mostra un momento di debolezza e “va al tappeto”.

Attilio Palmieri

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