venerdì 31 dicembre 2010

TFF 2010 - Qualche considerazione...

Scorrere il catalogo di un festival alla ricerca di indicazioni sullo stato di una cinematografia nazionale può essere un esercizio ozioso. Le rassegne di questo tipo, anche le più prestigiose, sono frutto di negoziazioni, compromessi, tentativi. Nel caso del Torino Film Festival, storicamente vicino all'avanguardia e alla sperimentazione, tuttavia, si può sperare di confrontarsi con una selezione che disegni percorsi all'interno di un cinema che si possa dire nuovo. Non tanto e non solo nel senso della ricerca linguistica e tecnica, quanto piuttosto nel disallineamento dallo status quo del narrare per immagini, nella programmatica dissonanza.

Nel contesto del cinema indipendente americano contemporaneo – siamo consapevoli della provvisorietà della definizione – abbiamo cercato di isolare due nuclei tematici ricorrenti. Il primo è legato alla rappresentazione della ruralità.
Anche senza risalire a Non aprite quella porta – che rimane però un riferimento imprescindibile per molte opere che citeremo – ci si accorge della pervasività di tale tema nel cinema indipendente statunitense dell'ultimo decennio pensando alle devianze di
Gummo o all'allucinazione twaininana di Undertow. Il film vincitore del festival, Winter's Bone di Debra Granik pare inserirsi in questa recente tradizione. È la fotografia di una zona di marginalità (quella che, con una perifrasi molto in voga qualche anno fa, si definiva “la provincia americana”) che sembra imporre il ritorno a uno stato di natura feroce. Un ritratto simile a quello offerto dal canadese Small Town Murder Songs, che a partire da un omicidio tenta di cogliere le peculiarità della quotidianità segregata in un villaggio mennonita. La provincia dei film citati, però, non è più il luogo della vendetta del non civilizzato di Un tranquillo weekend di paura o de I guerrieri della palude silenziosa. Tanto in Winter's Bone quanto in Small Town Murder Song, il dualismo tra civiltà e barbarie è cancellato dall'assenza di un riferimento alla città. In entrambi i casi, le comunità sono agglomerati di case sparse, mal disposte su un terreno brullo, cui non è offerta la possibilità del confronto – anche violento – con altri. È un ritratto dell'altrove che si fa astratto e, nel caso del film della Granik, anche vagamente calligrafico. Quasi rimandasse a un'idea dell'altro da sé fissata in caratteri (anche estetici; si pensi al prototipo redneck di Winter's Bone) tanto riconoscibili quanto inoffensivi.

Il secondo nodo tematico evidenziato trasversalmente dalle pellicole nordamericane selezionate dal festival è quello relativo al rapporto tra il cinema e la cultura di massa. In film come
Super o Kaboom è all'opera una commistione tra i dispositivi espressivi del cinema e alcune convenzioni rappresentative di altri media popolari. Nel film di James Gunn, ad esempio, il fumetto non è solo una parte esplicita della narrazione (la coprotagonista gestisce una fumetteria), ma rappresenta un orizzonte estetico evocato e ricostruito più volte durante il racconto. Kaboom, invece, nel creare una commistione tra linguaggio cinematografico (o, si direbbe, cinofilo, vista l'abbondanza di citazioni) e grammatica del montaggio di natura televisiva, dà vita a calcolate discrasie narrative.
D'altra parte, in film
Altitude e Suck si assiste a una messa in scena esplicita di alcuni feticci della cultura di massa. In entrambi i casi è attivo un doppio movimento: da un lato vi è un processo di mitizzazione della pop culture, dall'altro una forma di distacco ironico. La presenza di alcune star dell'hard rock nel film di Stefaniuk rappresenta un tentativo di sfruttare questa tensione: alla ridicolizzazione del machismo e dell'estetica cimiteriale dell'heavy metal si affianca la trasfigurazione mitica di alcuni dei suoi esponenti più illustri.

Entrambe le tendenze evidenziate sembrano rileggere ossessioni ricorrenti del cinema americano. Come detto, l'ipotesi del rurale come luogo della sopraffazione e della violenza fu uno dei tratti caratteristici del cinema degli anni Settanta (ma si potrebbe risalire fino a
La morte corre sul fiume). L'approccio ironico alla cultura popolare messo in luce da film come Altitude o Suck, d'altra parte, non sembra molto diverso da quello presente in alcuni film degli anni Ottanta come Ai confini della realtà o Morte a 33 giri. Per molti versi, dunque, la nostra ricognizione – evidentemente parziale e rapsodica – ha evidenziato ricorsi più che avanguardie. Se tale dinamica sia dovuta a una precisa scelta operata dai curatori del festival o, piuttosto, a un effettivo ritorno di certe pulsioni in seno al cinema indipendente americano, rimane una questione aperta.

Riccardo Fassone

Nessun commento:

Posta un commento