venerdì 10 dicembre 2010

TFF 2010 - L'ultimo esorcismo (Daniel Stamm)

Il cinema di genere americano sembra aver metabolizzato quella moltitudine di pratiche di narrazione che va sotto il nome di mockumentary. Forzando – ma nemmeno molto – le maglie della definizione, è possibile raccogliere sotto un cappello comune Cloverfield e The Blair Witch Project, Diary Of The Dead e Paranormal Activity. Opere che tematizzano lo sguardo in soggettiva mediato da una videocamera, riflettono esplicitamente sulla pratica del filmare e, in ultima analisi, sollecitano un ripensamento essenzialmente ludico dello statuto di realtà. Ludico perché, utilizzando una perifrasi spesso udita fuori dalle sale dove si proiettano le pellicole citate, nessuno “crede” davvero a questi film. Eppure, la complicità tra un linguaggio comunemente associato alla ripresa della realtà (la videocamera digitale mobile, instabile, il point of view shot) e le strategie narrative dell'horror genera prodotti capaci di sfruttare convenzioni visive e narrative emergenti.

Ne
L'ultimo esorcismo si racconta di una troupe decisa a girare un documentario su Cotton Marcus (Patrick Fabian), un esorcista che ha perso la fede e ha deciso di smascherare i suoi colleghi, che ritiene senza mezzi termini una manica di imbroglioni. L'ultimo esorcismo al quale si allude nel titolo è quello che Cotton impartisce, utilizzando una serie di trucchi da imbonitore, alla giovane Nell, una ragazza fortemente disturbata. Ovviamente, non tutto va come previsto.
Il film si serve di una serie di figure retoriche già viste all'opera in
The Blair Witch Project. In particolare, l'utilizzo della macchina da presa come strumento “esplorativo” più che narrativo, con una conseguente amplificazione del senso di minaccia del fuori campo, è qui preponderante nelle sequenze più concitate. La differenza rispetto alla matrice del cinema horror “in prima persona” è semmai nella volontà di ibridare la dimensione del mockumentary con dinamiche narrative tradizionali. Da un lato, le citazioni evidenti di molto cinema demoniaco (L'esorcista, certo, ma anche L'esorcismo di Emily Rose) costituiscono un elemento di spettacolarizzazione e un rimando intertestuale a un cinema pienamente finzionale; dall'altro l'utilizzo di elementi narrativi classicamente cinematografici (gli establishing shot, il campo/controcampo) è testimonianza di una conscia volontà di ibridazione. Il film si colloca, insomma, in una zona grigia tra la disciplina imposta del mockumentary (a cui, come detto, bisogna “credere”) e l'utilizzo di strutture linguistiche del documentario in un contesto narrativo essenzialmente ibrido.

L'ultimo esorcismo tradisce, però, un legame con un'altra area emergente del cinema popolare americano, quella legata a una religiosità radicale e (spesso bizzarramente) ortodossa. Anche volendo tralasciare lo stravolgimento in chiave teo-con de
Io sono leggenda, è possibile ricordare una manciata di titoli significativi in questo senso. Si pensi, ad esempio, al già citato L'esorcismo di Emily Rose, ma anche al secondo film di Scott Derrickson, Ultimatum alla terra, traduzione in chiave messianica dell'originale di Wise; o, ancora, a Codice Genesi e alla sua tematizzazione esplicita e ricorrente dell'Antico Testamento come unica possibilità di salvezza per un'umanità in guerra. Nel film di Stamm, che peraltro è ambientato nell'America profonda (e profondamente religiosa) rappresentata dagli stati del sud, è all'opera un processo di decostruzione (da parte dell'esorcista “scettico”) e ricostruzione delle Sacre Scritture – o almeno di una loro interpretazione – che non può che evocare strategie analoghe messe in pratica dai film citati. Il finale, che tenta di ricostruire – a dire il vero senza riuscirci – un rito panico à la The Wicker Man, in cui gli innocenti (i true believers...) sono sacrificati da schiere di pagani e scettici, è simbolo di un cinema sfrontatamente timorato di Dio.

Riccardo Fassone

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