domenica 12 dicembre 2010

TFF 2010 - Kaboom (Gregg Araki)


Dopo il racconto di un'infanzia rimossa in Mysterious Skin e dei ménage à trois in Splendor, Araki forza ancora le cifre contenutistiche che più gli sono care in Kaboom riportando in scena i soggetti ricorrenti all'interno della sua opera, specie la generazione X, l'apocalittica "Doom Generation".
La vita - apparentemente tranquilla - di Smith, un ragazzo bisessuale a cui “non piacciono le etichette” coinvolge infatti una serie di ventenni dalle personalità molto strambe: Thor, il suo compagno di stanza dalle chiare tendenze omosessuali, anche se ama il surf e odia i gay, il cui nome fa sicuramente più riferimento all'alto biondo e muscolosissimo eroe dei fumetti Marvel piuttosto che al personaggio dell'opera di Wagner; la migliore amica del protagonista, Stella, che è invischiata in una relazione sessuale con una donna che in realtà è una strega dai poteri soprannaturali e il Messiah (interpretato da James Duval attore feticcio nel cinema del regista), un relitto umano che fuma marijuana e urla alla fine del mondo.
È impossibile però considerare Araki come un regista che racconta una “gioventù bruciata”: i suoi personaggi – i “suoi” giovani – sono da contestualizzare all'interno di uno scenario più ampio, un certo tipo di cultura prevalentemente americana – la cultura dello stesso artista – infarcita di suggestioni fumettistiche, Pop Art, commedia nera, richiami al cinema di Lynch, cyberpunk e letteratura americana contemporanea (chiaramente Bret Easton Ellis) che non costruiscono l'adolescente ma solo la sua immagine distorta immediatamente comprensibile solo da chi ha avuto lo stesso tipo di formazione.
Queste diversissime personalità che sembrano estrapolate da una teen comedy americana hanno ben poco a che fare con la sfrontatezza e il disincanto (omicida) dei “Natural Born Killers” delle prime opere di Araki. Ricordiamo a questo proposito la prima sequenza di The Doom Generation in cui la macchina da presa dopo essersi soffermata sul nome della discoteca “Welcome to Hell” inquadra la giovane protagonista del film che accoglie gli spettatori con un insulto (“stronzi”) chiaramente diretto al mondo intero.

La nuova (?) generazione drogata e dannata di Araki perde la cattiveria e la contrapposizione tra giovani e società lasciando posto invece a una riflessione sulla realtà che diventa sogno, sul banale che si rende incubo, sul quotidiano che muta in visione mostruosa. Opposti che Araki alterna attraverso l'uso di due registri contrapposti, il primo strettamente preparatorio – in cui vengono presentate le abitudini soprattutto sessuali dei personaggi – lascia spazio a metà del film al secondo dove viene evocato il soprannaturale à la Twin Peaks. In entrambe le parti Araki fortunatamente aggiunge, rendendolo centrale all'interno del mood del film, il registro comico plasmato su un umorismo nero anch’esso più innocuo e fondamentalmente più divertente rispetto alle prime opere. Facezie intelligenti e politically scorrect di un regista che non si vuole prendere troppo sul serio e seppur avvicinatosi al carattere mainstream non perde il coraggio che da sempre lo contraddistingue (“Are you worried?” chiede un personaggio; l'altro risponde: “Does Mel Gibson hate Jews?”). In questo senso è peculiare la scelta di Araki di utilizzare una fotografia patinata tipica delle sit-com americane e un montaggio serrato quasi da videoclip ampiamente contrastati nella seconda parte del film dall'uso della macchina a mano.
Molto significativa all'interno della pellicola è l'utilizzo della musica – o ancora – di un certo tipo di musica propria di una controcultura particolare e giovanilistica, la new wave degli anni Ottanta e i suoi epigoni, una musica dai toni oscuri e apocalittici che chiude il film con The Bitter End dei Placebo: appunto, una fine amara.

Mariella Lazzarin

Nessun commento:

Posta un commento